Omelia per l’ordinazione sacerdotale di don Tommaso Catellani, don Matteo Tolomelli, don Alessandro Zaniboni e diaconale di Sebastiano Busani, Paolo Lusvardi e Marcello Mantellini. XXVI Domenica del Tempo Ordinario
Cattedrale di Reggio Emilia
Cari fratelli e sorelle,
cari Matteo, Alessandro e Tommaso,
cari Marcello, Sebastiano e Paolo,
il mio saluto innanzitutto a voi e alle vostre famiglie, ai vostri amici, a tutti coloro che vi hanno accompagnato fino a questo giorno così importante per la vostra vita e la vita della Chiesa. Saluto e ringrazio i Superiori del seminario che hanno curato il vostro cammino: il rettore, don Alessandro Ravazzini, il vice rettore, don Luigi Orlandini, don Matteo Bondavalli, il superiore della Familiaris Consortio, don Pietro Adani; i padri spirituali: don Edoardo Ruina, don Pietro Paterlini, don Matteo Mioni; saluto e ringrazio anche i professori dello Studio Teologico Interdiocesano e in particolare don Daniele Moretto che lo ha diretto per la maggior parte degli anni in cui i nostri candidati agli ordini hanno studiato. Un saluto pieno di affetto anche ai vostri parroci: don Fernando Borciani, don Pietro Paterlini, don Nildo Rossi, don Luigi Rossi, don Guerrino Franzoni e don Stefano Manfredini.
Saluto con affetto il vescovo Adriano, mio predecessore su questa cattedra.
Oggi, attraverso il sacramento dell’Ordine, nei suoi gradi presbiterale e diaconale, Cristo prende definitivamente possesso delle vostre vite e vi introduce ad un rapporto di speciale identificazione con lui, con il suo cuore «traboccante di pace» (Dionigi l’Areopagita, De divinis Nominibus 953 A 10) e assetato dei cuori degli uomini. Come dice san Paolo, non sarete più voi a vivere, ma Cristo in voi (cfr. Gal 2,20). Solo lasciandovi possedere interamente da Gesù sarete in grado di portare agli uomini con letizia e fedeltà la luce che oggi vi investe.
Il vangelo di questa domenica ci aiuta a entrare nella realtà della vocazione cristiana e di quella sacerdotale in particolare. Figlio, oggi va a lavorare nella vigna (Mt 21, 28), dice ai suoi due figli il padre della parabola che Gesù racconta. Al centro del vangelo ci sono la richiesta di Dio e la risposta dell’uomo. È un vangelo che parla di una chiamata. Ad una prima lettura sembrerebbe che il cuore del racconto sia l’invito alla coerenza, l’invito a seguire Cristo non solo a parole, ma coi fatti e con la totalità della propria vita. Certamente questo è un tema importante e presente nel vangelo di Matteo, così come è presente nella lettera di san Giacomo. Tuttavia, se ci soffermiamo a considerare le parole con cui Gesù stesso commenta la parabola, scopriamo che il centro teologico della narrazione è in realtà la conversione, cioè il passaggio dal no al sì: il figlio che dice di no al padre si pentì, dice Gesù (Mt 21, 30). Così anche i pubblicani e le prostitute hanno creduto a Giovanni Battista, voi al contrario – continua Gesù, non vi siete nemmeno pentiti (Mt 21, 32). Entrare a lavorare nella vigna del Signore, quindi, prima ancora che la coerenza morale, implica l’apertura alla conversione, la coscienza della propria inadeguatezza, del proprio male e quindi la supplica a Dio che ci strappi da noi stessi e ci introduca nella sua fedeltà.
In ogni stagione della nostra vita siamo chiamati a passare continuamente dal no al sì, dal no – detto a parole, come nel caso del primo figlio, o nel cuore, come nel caso del secondo – al sì che si esprime nella fede e nell’obbedienza. L’ingresso nella volontà del Padre è la fede che a sua volta suscita la contrizione per il proprio male e il desiderio della conversione e della coerenza di vita.
Perché i pubblicani e le prostitute si convertono (cfr. Mt 21, 31-32)? Perché di fronte alla predicazione del Battista vivono con disagio la loro vita, i loro rapporti, il lavoro che svolgono. Si accorgono di essere immersi in un’esperienza di male. Dal fondo del loro disagio sgorga la scoperta che sono chiamati ad altro, che è altro ciò che riempie di luce la vita. La loro conversione e il loro grido a Dio non nascono da un intellettualistico sforzo di coerenza, ma dal fascino suscitato in loro dall’incontro con Giovanni. «Il cuore nuovo – scrive san Gerolamo, di cui quest’anno celebriamo 1600 anni dalla morte – vuol dire credere in colui che prima avevano rifiutato; il cuore nuovo vuol dire abbandonare… le cose morte e credere in colui che è il Dio dei vivi» (S. Girolamo, Commento a Ezechiele, VI, 18, 31). Naturalmente, Gesù, parlando del Battista, delle prostitute e dei pubblicani, sta parlando dei suoi incontri, sta descrivendo ciò che era accaduto con Zaccheo, con Levi, con la donna peccatrice… È l’incontro con lui, con la sua umanità e la sua carità, a smascherare il male e generare negli uomini e nelle donne il fascino della vita nuova. È la sua bellezza a rendere nauseante la vita di prima e instillare il desiderio del cambiamento.
La vocazione, allora, è essere chiamati ad ascoltare e accogliere il grido di disagio che sgorga dal nostro cuore e da quello dei nostri fratelli per accompagnarlo verso la conversione. L’evangelizzazione non è solo un annuncio, ma è un accompagnamento, fino all’ingresso stabile nella Chiesa attraverso i sacramenti.
Ogni vocazione, e in particolare la vocazione sacerdotale, è suscitata da Dio come strada per interpellare gli uomini ed invitarli nella sua vigna, nel suo Regno. Viviamo negli ultimi tempi, come qui, nel vangelo che abbiamo ascoltato, si parla della fine della vita di Gesù. Come allora, forse più di allora, il mondo sembra procedere nell’ateismo e nel rifiuto. Oggi è in atto una vera e propria decostruzione di ciò che è nato dal cristianesimo. Si pensi al rinnegamento di ciò che riguarda l’uomo, la sua natura e la sua identità. A noi non interessa ricostruire una civiltà cristiana, interessa però sommamente indicare le strade per la felicità dell’uomo. Ciò che sta a cuore a Cristo e ai cristiani è solo questo: aiutare l’uomo a salvarsi dalla dissoluzione e dalla dissipazione. Questo è il senso di ciò che diciamo sulla vita, sulla famiglia, sull’identità sessuale, sull’eutanasia, ecc. È questo il senso del nostro parlare e del nostro operare, del nostro interesse e della nostra simpatia per ogni uomo e per ogni sfumatura dell’esperienza umana.
Nella prima lettura di questa domenica, il profeta Ezechiele riporta un pensiero del popolo, che è anche una domanda dell’uomo contemporaneo e di ciascuno di noi: non è retto il modo di agire del Signore (Ez 18, 25; 33, 17.20). A questo Dio risponde: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? (Ez 18, 25). Quando si incontra una difficoltà – pensate a cosa è accaduto con il Covid, per esempio – coloro che credono pensano che Dio li voglia punire o li abbia abbandonati, mentre quelli che non credono pensano che questa sia un’ulteriore prova dell’assenza di Dio. Le due risposte – Dio non c’è o, se c’è, è la causa del male – sono ambedue sbagliate. Dio non vuole punire, ma desidera convertire, convertirci dalla nostra malvagità per farci vivere pienamente, come dice il profeta Ezechiele (cfr. Ez 18, 27-28). Il compito del sacerdote è proprio quello di intercettare queste domande dell’uomo e di portarle a Dio, facendosi eco presso gli uomini della voce del Padre che chiama e invita a entrare nella vita vera. Il sacerdote è colui che, soprattutto attraverso la celebrazione dei sacramenti, l’insegnamento e l’esempio stesso della sua vita, suscita nel popolo la nostalgia per la vita vera, per la comunione e per la verità.
È questa la gioia più grande del pastore, come afferma san Paolo nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi: l’apostolo sente che la consolazione più grande per il suo lavoro è la comunione di pensiero e di intenti all’interno delle sue comunità. È l’uscita dalla solitudine dell’individualismo. La gioia piena di Paolo è il medesimo sentire e la stessa carità, l’unanimità e la concordia che devono sostituire progressivamente la rivalità e la vanagloria (cfr. Fil 2, 1-4). Questo cammino, cammino veramente sacerdotale, è il cammino in cui il responsabile della comunità, prete e diacono, chiama tutta la comunità a identificarsi con la persona di Cristo.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù (Fil 2, 5). Il termine greco che Paolo sceglie per riferirsi ai sentimenti di Gesù è denso di significato. Non si riferisce innanzitutto alle emozioni, come la traduzione italiana ci indurrebbe a pensare, ma si tratta della sorgente del giudizio, del pensiero e dell’azione. Prima ancora che dare indicazioni concrete di comportamento, Paolo ci invita a entrare nella mente e nel cuore di Cristo, a identificarci con il suo modo di guardare, di pensare, di parlare. Avere gli stessi sentimenti di Cristo significa entrare in uno stato permanente di conversione e, quindi, di gioia. «Si tratta non solo e non semplicemente di seguire l’esempio di Gesù, come una cosa morale, ma di coinvolgere tutta l’esistenza nel suo modo di pensare e di agire. La preghiera deve condurre ad una conoscenza e ad un’unione nell’amore sempre più profonde con il Signore, per poter pensare, agire e amare come Lui, in Lui e per Lui. Esercitare questo, imparare i sentimenti di Gesù, è la via della vita cristiana» (Benedetto XVI, Udienza generale, 27 giugno 2012).
È questo il mio augurio per ciascuno di voi e per tutte le persone che Dio vi farà incontrare nel vostro ministero. Possa la Madonna accompagnarvi in questo “imparare” suo Figlio, custodendo e alimentando in voi lo stesso fuoco d’amore che brucia nel cuore di Cristo.
Amen.