Omelia nella IV domenica di Pasqua
Reggio Emilia, Cappella del Vescovado
Cari fratelli e sorelle,
il tema del “pastore” è centrale nella liturgia di oggi. Esso ricorre più volte nelle letture che abbiamo ascoltato, ma anche nella “Preghiera di Colletta”, nella quale si parla di noi: “il piccolo e umile gregge che deve essere ricondotto alla casa del pastore” (cf. Preghiera di Colletta, IV domenica di Pasqua, anno A).
Chi è il pastore? Certamente, innanzitutto, quella del pastore era una presenza molto concreta e quotidiana nella vita dei popoli del Medio Oriente Antico, che vivevano in gran numero di pastorizia. Ma in realtà, quando ho fatto la Visita Pastorale nel nostro Appennino reggiano, ho sentito parlare delle transumanze dei pastori che, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, hanno costituito uno dei lavori fondamentali di molta parte della popolazione del nostro territorio. Ho potuto incontrare persone di novant’anni che mi hanno raccontato a lungo queste esperienze.
Ma propriamente, di chi si parla nella liturgia di oggi? L’esperienza del pastore è un punto di partenza, un’immagine che poi viene allargata per essere attribuita in modo sommo a qualcuno. Innanzitutto il pastore che guida la storia del mondo è Dio. C’è un Prefazio che parla di Dio come del “Pastor aeternus”, “eterno Pastore” (cf. Prefazio degli Apostoli, I), colui che da sempre conduce la storia dell’uomo. Dio, pastore delle stelle, pastore dell’universo: pastore non solo perché guida, ma soprattutto perché conduce verso il bene.
E così entriamo in un secondo significato, che deriva dal primo: il Pastore eterno ha mandato sulla terra il proprio Figlio perché egli fosse pastore degli uomini. Gesù attribuisce a sé stesso questo nome di “pastore”: non gli è stato applicato successivamente dai suoi discepoli, non è una metafora per capire chi egli sia. La parola “pastore” fu scelta da Gesù per descrivere sinteticamente la propria missione. L’ha usata nelle parabole, come quella del pastore che lascia al sicuro le novantanove pecore per andare a cercare quella smarrita (cf. Lc 15, 4-7). Alcuni Padri della Chiesa vedono qui l’incarnazione: il Figlio, il Verbo che lascia i novantanove cori angelici per scendere, farsi uomo e raccogliere l’umanità sperduta. È sempre Gesù poi che dice: vi vedo come pecore senza pastore (cf. Mc 6,34). È Gesù che dice: come avrei voluto radunare la gente di Gerusalemme, come una chioccia vuole radunare sotto di sé i suoi pulcini in vista del temporale per nasconderli dalla pioggia, dai lampi, dalle intemperie, dai pericoli della vita (cf. Lc 13,34).
Forse l’immagine più bella del pastore l’abbiamo proprio nel Salmo 22, che abbiamo ascoltato durante questa celebrazione eucaristica: Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla (Sal 22,1). Il salmo ci spiega cosa vuol dire non manco di nulla: Dio si occupa di tutti i particolari della mia vita, di tutti i particolari importanti: prepara per me un banchetto davanti ai nemici (cf. Sal 22,5), cioè non solo mi alimenta ma anche mi difende; mi protegge col suo bastone, col suo vincastro (cf. Sal 22,4) – che era il bastone con cui si tenevano lontani gli animali pericolosi. Mi dà sicurezza in questo modo. E anche se devo camminare nelle avversità della vita, in una valle oscura, egli è con me (cf. Sal 22,4).
E Gesù conclude il brano di Vangelo che abbiamo ascoltato proprio in questa messa, dicendo: sono venuto perché abbiano la vita in abbondanza (Gv 10,10). Quest’espressione, vita in abbondanza, è forse la sintesi di tutta la sua opera di pastore. Non solo dò la mia vita, ma questa mia vita io la dò liberamente (Gv 10,18). Essa sarà una vita in abbondanza, cioè una vita che non finisce, una vita superiore alla vita naturale. Una vita in abbondanza è una vita destinata a crescere sempre di più nella comunione, nella partecipazione con la vita degli altri e, infine, nella sconfitta della morte.
Il tema dei pastori naturalmente ha un riferimento a coloro che Gesù sceglie come pastori della Chiesa, per proseguire la sua opera di pastore. E questa è proprio la ragione per cui si parla di “pastori” in questa liturgia. Infatti, dietro ai testi che abbiamo letto, ci sono altri testi dell’Antico Testamento, per esempio alcuni capitoli del profeta Ezechiele in cui si parla dei buoni e dei cattivi pastori (cf. Ez 34; Ger 23, 1-8). Dunque, forse, questi versetti del vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato, riflettono anche già una situazione presente nella Chiesa primitiva, nel primo secolo: i buoni e i cattivi pastori.
Ci sono coloro che dicono di essere buoni pastori e invece, dice Gesù, sono dei ladri e dei briganti (cf. Gv 10, 12-13). E invece ci sono coloro che sono pastori autentici, coloro che riflettono in sé la caratteristica del pastore che è Gesù, chiamato nel vangelo di Giovanni kalòs poimèn (Gv 10,11), cioè il pastore bello e buono. Nella lingua greca, i concetti di bello e buono si possono esprimere con una sola parola, quasi a dire che la bellezza esteriore riflette la bontà interiore e che la bontà interiore necessariamente determina anche una luminosità esteriore.
E qual è la differenza fra i pastori buoni e quelli cattivi, fra il pastore e il mercenario? È bene descritta in questo Vangelo: il mercenario è interessato a sé stesso. Dunque il pastore cattivo è colui che riferisce a sé, che strumentalizza, che vuole possedere l’altro. Il pastore buono, invece, nella Chiesa, è colui che riferisce le pecore a Cristo.
Ed entriamo così nel tema della “porta”. È strano: prima ancora di parlare del pastore buono, Gesù sviluppa questo tema della porta. Come mai? Io sono la porta, la porta delle pecore. Chi vuole entrare nell’ovile deve passare attraverso di me (cf. Gv 10, 7). In questo modo egli spiega chi è il buon pastore: è colui che è riferito a Gesù, è colui che, per arrivare alle pecore, passa attraverso Gesù e riconduce a Gesù le pecore stesse. È colui che non ha un interesse privato, ma piuttosto pubblico, un interesse ecclesiale: vuole condurre le pecore a Cristo, alla Chiesa. Vuole farle entrare nell’ovile comune.
Comprendiamo così con chiarezza il significato del “buon pastore”: esso non è solamente riferito a Dio, non è solamente riferito a Cristo, non è solamente riferito ai pastori, ma anche a ciascuno di noi. Per opera del Battesimo ciascuno di noi è chiamato ad essere pastore, pastore nella Chiesa. Certo, ci sono differenti compiti che sono affidati nella Chiesa, ma a ciascuno è affidato il compito di pastore perché ciascuno deve “condurre”, cioè deve “attrarre” a Cristo. Ciascuno deve pascere, cioè deve alimentare, portare le pecore ai pascoli buoni e non a quelli delle acque inquinate.
Il “buon pastore” è colui che sa dove condurre. Sa che deve condurre alla Parola di Dio e non alla propria; sa che deve condurre all’Eucarestia e non semplicemente al pane terreno; sa che deve condurre alla Chiesa e non semplicemente a una comunità secondo le sue idee. Ecco chi è il pastore vero. E ciascuno di noi è chiamato a diventare immagine di Gesù attraverso la sua azione pastorale.
Negli lettura dagli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato, è riportata una parte del discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste (1Pt 2, 20-25). Vedete come era cambiato, dopo soli cinquanta giorni! Indubbiamente l’opera della Spirito è stata potente sui primi apostoli. Ha trasformato dei pescatori in pastori, dei pescatori in maestri. Perché questa presenza di Pietro è così forte in questa liturgia? Perché egli è il pastore dei pastori. È colui che ha concluso la propria vita come pastore, a Roma; è colui che si è sentito dire da Gesù: pasci le mie pecore (Gv 21,17). In questa parola, dettagli da Gesù dopo la resurrezione, egli ha percepito il riassunto di tutta la propria esistenza, il significato stesso del suo essere.
È questa parola, è questa missione ciò che egli ha voluto trasmettere alla sua Chiesa, ai pastori e a tutti noi. Sia lodato Gesù Cristo.