Santa Messa in memoria della Serva di Dio Tilde Manzotti
Reggio Emilia, Cripta della Cattedrale
Cari fratelli e sorelle,
104 anni fa, nel 1915, proprio in questo giorno, la Serva di Dio Tilde Manzotti riceveva il Sacramento del Battesimo nel Battistero di questa nostra cattedrale, poco lontano da qui. Sono felice di poter celebrare con voi la Santa Messa, in ricordo di questa donna che rappresenta un esempio luminoso ed eroico di testimonianza della fede per la nostra città e la Diocesi. Saluto padre Gianni Festa, op, Postulatore della Causa di Canonizzazione di Tilde; don Alessandro Andreini della Comunità di San Leolino e collaboratore esterno alla Causa; Fabiana Guerra, coordinatrice del “Gruppo Amici di Tilde” a Reggio Emilia; e tutti voi qui presenti, che in vario modo siete legati alla figura di Tilde Manzotti o che desiderate conoscerla più da vicino.
La vita di Tilde, lo sappiamo, fu molto breve: ella morì a soli 24 anni, la stessa età di Santa Teresa di Lisieux. Uno spazio di tempo molto piccolo, ma estremamente ricco, intenso, e soprattutto fecondo. La sua vicenda umana fu segnata da tanto dolore, sia fisico che spirituale. Aveva solamente 15 anni quando cominciarono a manifestarsi nel suo corpo i primi sintomi della tubercolosi polmonare, malattia che, negli anni Trenta, lasciava ben poche speranze, e che l’avrebbe condotta alla morte nove anni più tardi. Giovanissima, Tilde dovette abbandonare i suoi studi e cambiare radicalmente i suoi progetti. Fu costretta a lunghi periodi di convalescenza in luoghi salubri dell’Appennino tosco-emiliano, e fu proprio qui che avvennero gli incontri decisivi, quelli che trasformarono completamente la sua fede e la sua vita. Penso soprattutto al suo rapporto con il domenicano Antonio Lupi, all’epoca non ancora sacerdote, e con tante suore domenicane, alle quali ella avrebbe voluto unirsi. Il suo desiderio di consacrazione e di apostolato non trovò compimento nelle forme “canoniche” da lei immaginate. Poté entrare a far parte della famiglia domenicana unicamente in qualità di terziaria. La sua vita fiorì per altre strade. “Ho trovato attraverso la strada del dolore, la mia via”[1], scrisse Tilde all’amica reggiana Saffo nel marzo 1939, pochi mesi prima della sua morte.
Nella medesima lettera, Tilde comunicò “con gioia” alla sua amica che la sua vocazione consisteva di una strada fatta allo stesso tempo di amore e di dolore: “Non impensierirti se accosto così due termini che forse ti sembreranno contrari, ma che non lo sono. Tu sai che soltanto il dolore può purificare l’anima umana: la lacrime rischiarano la vista”[2]. Questi pensieri, che forse stonano non poco all’orecchio di molti uomini e donne del nostro tempo, sono il segno di una grande maturità nella fede cristiana e di un intenso rapporto vissuto con il Signore Gesù. Essi si sono sviluppati nel cuore di Tilde grazie alla sua esperienza quotidiana, fatta di preghiere, amicizie, tribolazioni, suppliche e impegno. Il misterioso ma reale intreccio tra dolore e amore, che solo la fede lascia intravedere nella sua positività e permette di accettare come un bene, è l’unica luce calda e pacificante che consente di entrare senza angoscia nelle difficoltà e nelle prove che inevitabilmente la vita pone ad ogni persona.
Qual è la radice profonda di questa positività? Cosa ha permesso a Tilde di accettare una vocazione tanto impegnativa? La risposta va cercata nella contemplazione dei misteri della vita di Gesù Cristo: egli infatti manifestò l’amore più grande nella più grande sofferenza; egli è colui che ha trasformato la morte in causa di salvezza. Tilde ha compreso che la croce di Cristo è la massima prova d’amore di Dio per l’uomo. E l’uomo può ricambiare questo amore solamente imitando Gesù, abbracciando cioè la croce che per lei era rappresentata dalla sua malattia, e da tutto ciò che essa implicava. Questo è il segreto della santità.
Nella vita di Tilde questa scoperta non è stata né scontata né facile: essa è l’esito di una lotta, di un dialogo continuo e appassionato con il Signore. Sappiamo che la nostra “sorella”, circa due anni prima del compimento del suo sacrificio, passò attraverso la notte della fede, una crisi profonda e molto dolorosa. Ma il Signore non la abbandonò e soprattutto ella non si stancò di cercarlo e di invocarlo, di mendicare il suo volto. “Tu sapessi con quanto e con quanto spasimo e con quanto ardore l’ho cercato! – scrive sempre alla sua amica Saffo – Ritrovarlo dopo tanta ansiosa ricerca, trovare la pace nel cuore, sentirsi in cuore cantare la Vita e l’amore e la gioia di tutti i cieli, questo è di una soavità infinita”[3].
C’è un’altra espressione di Tilde, tratta dalla medesima lettera del 1939, che mi ha molto colpito e che vorrei condividere con voi: “La nostra mente bisogna che si accontenti di quello che il Signore ci fa comprendere, ma ti dico che è molto e basta alla nostra sete”[4]. Quante volte alcuni aspetti della nostra vita non sono chiari, così come l’utilità certi sacrifici che dobbiamo attraversare! Eppure l’anima che cerca e vive un rapporto sincero con il Signore, non cade mai nella disperazione. La forza che ci consente di vivere con letizia e gratitudine ogni circostanza trova la sua origine nella contemplazione dell’amore di Cristo e nella meditazione della sua promessa. La pagina di Vangelo proclamata in questa liturgia ci aiuta a comprendere che cosa il Signore vuole per noi: egli prega il Padre affinché noi siamo una sola cosa con lui, così come lui è una sola cosa con il Padre (cf. Gv 17,21); Gesù vuole che noi siamo dove è lui, così da poter contemplare la sua gloria (cf. Gv 17,24). Tutto ciò è possibile, nella misura in cui, attraverso la Chiesa, permettiamo a Dio di entrare nella nostra vita.
La nostra sorella Tilde, che speriamo di poter vedere presto innalzata alla gloria degli altari, ci precede ed è per noi testimone vicina e credibile della capacità di Dio di rendere bella la vita, dentro tutte le sue ore. Chiediamole il dono di poterla imitare. Amen.
+ Ma
[1] Tilde Manzotti, Lettera a Saffo, 4 marzo 1939, Firenze.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.