Omelia nella XXXII domenica del Tempo Ordinario. Conferimento del ministero del Lettorato e dell’Accolitato ad alcuni seminaristi
Basilica della Ghiara, Reggio Emilia
Cari fratelli e sorelle,
il testo evangelico da cui parte la nostra riflessione di questa sera è tratto dal Vangelo di Luca (Lc 20,27-38). Racconta una disputa di Gesù con i Sadducei, in merito alla resurrezione dei morti. È un testo molto importante, e infatti è riportato da tutti i tre Vangeli sinottici. Questo brano tratta una questione rilevante nella predicazione di Gesù e nella fede della comunità cristiana primitiva: la resurrezione della carne. Questa verità di fede entrerà successivamente nel Credo degli Apostoli, come uno dei suoi contenuti essenziali.
La resurrezione della carne è ben diversa dalla semplice immortalità dell’anima, cui erano giunte le filosofie e alcune religioni dell’Egitto, della Grecia e dell’India. Per la fede di Israele, fino al secondo secolo prima di Cristo, l’uomo dopo la morte era destinato a scendere in un luogo di vita diminuita, lo Sheol di cui parlano molti salmi, dove non vi era possibilità di lode a Dio e dunque di comunione. Israele non parlava di resurrezione dei corpi, e neppure di immortalità dell’anima. Ma a partire soprattutto dal martirio dei Maccabei, che abbiamo ascoltato nella Prima Lettura (2 Mac 7,1-14), iniziò una riflessione sulla giustizia e sulla morte per fede, che portò ad una considerazione del futuro aperta alla resurrezione. È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (2Mac 7,14), abbiamo sentito dire pochi istanti fa dal quarto dei sette fratelli Maccabei al suo carnefice.
Per comprendere il testo del Vangelo occorre ricordare che i Sadducei si limitavano a leggere e a studiare i cinque libri della Torah, dove non si parla assolutamente di resurrezione dei corpi. Essi si ribellavano perciò a questa prospettiva, considerando eretici tutti coloro che si erano aperti ad una visione nuova dell’escatologia. I Sadducei erano un movimento di benestanti e proprietari terrieri, con una visione materialistica dell’esistenza e anche della stessa religione.
Il brano di Luca che abbiamo ascoltato è uno dei pochi nel Vangelo a cui possiamo riferirci per uno squarcio sull’aldilà, di cui le pagine del Nuovo Testamento sono molto avare. Mentre molto frequenti sono le parole di Gesù in merito ad un’esistenza oltre la morte, preparando gli animi degli ascoltatori a quanto sarebbe avvenuto con la sua resurrezione, nulla o quasi viene detto sulla condizione di vita oltre la fine temporale dell’esistenza.
La disputa tra Gesù e i Sadducei si appoggia sulla legge del levirato (cf. Dt 25,5-10). Essa stabiliva che se un uomo moriva, il fratello di lui doveva sposare la vedova per non disperderne il nome e i beni. Appare così una visione molto realistica, ma anche molto materiale del matrimonio, da cui è assente l’amore. La donna infatti doveva sposare il cognato (nel caso del Vangelo di stasera addirittura una serie di cognati) che naturalmente non amava e forse neppure conosceva.
Nella sua risposta alla domanda dei Sadducei, Gesù parla del tempo oltre la morte, del tempo infinito dell’uomo con Dio, quando avviene la nuova creazione dell’uomo, inaugurata sulla terra dalla morte e resurrezione del Figlio di Dio. Che cosa dice Gesù di questa vita oltre il tempo? Non si prenderà moglie o marito ma si sarà come angeli nel cielo (Lc 20,35-36). Come interpretare questa frase di Gesù? Saranno rotti i vincoli nati sulla terra? Saranno mutati? Che cosa rimarrà? In particolare cosa vuol dire: Saranno come angeli di Dio (Lc 20,36)? Penso che si debba intendere così: oltre il tempo non ci sarà più procreazione poiché il numero degli uomini sarà compiuto. Non ci sarà perciò unione carnale né attrattiva erotica a ciò finalizzata. Non finirà per questo la bellezza corporea, né perderà di valore il posto particolare che ciascuno ha avuto nella nostra vita. Ma troveremo l’altro secondo un’intensità potenziata, perché lo troveremo in Dio, all’interno di una comunione cosmica in cui il male che ci divide sarà bruciato.
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Desidero ora rivolgermi ai seminaristi che riceveranno tra poco il ministero del Lettorato e dell’Accolitato. Per voi le parole di Gesù acquisiscono stasera un significato particolare. Esse ci suggeriscono che all’interno del Popolo di Dio, già ora, nel tempo della Chiesa, alcuni sono chiamati a vivere nella verginità e nella continenza, rinunciando a sposarsi, totalmente assorbiti dalla vita divina. Si tratta dei sacerdoti, dei religiosi e dei consacrati. La loro chiamata è radicata sul fondamento di una solida speranza: la vita eterna.
Il celibato è profondamente conveniente per il sacerdozio ministeriale (cf. Concilio Vaticano II, Decreto Presbiterorum Ordinis [1965], n. 16) in quanto esso è l’anticipazione nel tempo di ciò che ogni uomo e ogni donna è destinato a vivere per l’eternità. È l’anticipazione in questa vita di un’unione con Dio piena, secondo la misura delle nostre possibilità umane, e soprattutto secondo il dono di grazia del Signore. È l’anticipazione visibile dell’unione con colui che può riempire di soddisfazione, bellezza e pace il cuore dell’uomo. Tutto ciò da un lato edifica nella santità la vita di coloro che, come voi, abbracciano questo dono; dall’altra è essenziale soprattutto per la vita delle famiglie, per il loro accompagnamento, per mostrare loro la realtà di quell’amore senza fine che può e deve riempire l’amore coniugale e verso i figli.
Il celibato è, perciò, agli occhi di Gesù e nelle sue parole, un carisma positivo, bello, fonte di gioia e di speranza. È un dono, che va accolto come grazia, con umiltà, coinvolgimento libero e deciso. Siete disposti ad accogliere questo dono? Esso è unito alla chiamata che il Signore vi ha rivolto. Questa sera chiediamo a Dio che possiate prepararvi a vivere nel celibato accogliendo il dono della sua chiamata, per poter vivere in pienezza la vostra vocazione.
Volete imitare Gesù Cristo, Maestro e Signore, la persona a cui desiderate dare interamente, senza riserve e con cuore indiviso, tutta la vostra vita. La luminosità del celibato viene a noi dal Vangelo, dalla stessa vita di Gesù stesso. E attraverso la preghiera, la vita sacramentale e la comunione, la convenienza del celibato diventerà, col passare del tempo, sempre più visibile e convincente per ciascuno di voi.
Oggi il dono del celibato è contestato fortemente dal mondo (così è già avvenuto in molte epoche della storia) e vive una certa crisi anche all’interno della Chiesa. Qual è la ragione di questa crisi? Molte sono le strade di risposta a questa domanda. Le ho accennate nella mia omelia dell’8 settembre scorso, proprio in questa basilica. Recentemente, in una pagina di Karl Rahner, ho trovato un pensiero molto sintetico ed efficace su questo punto. Ha scritto Rahner: “Ci sono molte ragioni per l’attuale crisi del celibato. […] Ma se non ci inganniamo da noi stessi, dobbiamo vedere che la causa ultima di questa crisi sta nella crisi della fede generale e complessiva”.
Cari seminaristi, coltivate perciò la vostra fede e non stancatevi mai di ricercare e di approfondire ogni giorno il vostro rapporto personale con Cristo!
In questo Tempio della Madonna della Ghiara, nella ultime settimane dell’anno di grazia a lei dedicato, prego la Madre di Gesù, modello di santità e verginità perfetta, affinché vi accompagni, vi sostenga e vi faccia percepire ogni giorno la vostra vocazione come la strada concreta attraverso la quale Dio vi sceglie e vi ama. Amen.