Omelia nel primo anniversario della morte del cardinale Carlo Caffarra
Bologna
Cari fratelli e sorelle,
il mio saluto va a tutti voi che siete qui convenuti per partecipare alla preghiera di Cristo al Padre in occasione del primo anniversario della salita al Cielo di colui che è stato il vostro arcivescovo, il cardinale Carlo Caffarra.
Tra tutti voi, desidero innanzitutto salutare e ringraziare monsignor Matteo Zuppi per avermi invitato a tenere l’omelia durante questa celebrazione eucaristica, riconoscendo in questo modo il legame particolare che ha unito per quarant’anni la mia persona e quella del cardinale, in un rapporto vissuto da me sempre in modo diseguale (lui era il maestro, io il discepolo) e nello stesso tempo come una profondissima amicizia che ci rendeva fratelli e collaboratori nell’opera di Dio.
La prima ragione per cui si prega per un defunto sta nel riconoscimento della nostra comune fragilità. Ogni persona, quando si presenta al cospetto di Dio, ha bisogno di avvocati, di difensori, delle preghiere del popolo cristiano, affinché la luce del Padre bruci tutte le sue impurità e la renda degna di vivere pienamente trasparente e luminosa al cospetto di Dio. Il primo dovere che nasce da un’amicizia, da una figliolanza, è quello della preghiera. Chi vi parla desidererebbe che, alla sua morte, il suo popolo sentisse la gioia di offrire delle Sante Messe per lui.
La seconda ragione della nostra preghiera nasce dal profondo convincimento che chi è morto in realtà è vivo. Anche se il suo corpo si va disfacendo, come ha scritto san Paolo (2Cor 4,16), la sua vita continua in attesa del nuovo corpo glorioso che presto gli verrà concesso dal Padre, a partecipazione del corpo risorto di Cristo. Il nostro dialogo con coloro che sono invisibili, ma non assenti, è una delle esperienze più belle e confortanti della nostra vita. Ne siamo sicuri: i nostri cari defunti che sono in Cielo, intervengono presso il trono di Dio, a loro volta pregano per noi, ci sostengono e ci aiutano nei momenti difficili. È questa una delle avventure più consolanti della mia vita di settantenne: un dialogo che tesse un filo di conversazione tra coloro che vivono con me e coloro che a lungo hanno vissuto in mia compagnia, ma ora sono già nella dimensione dell’eterno.
Come è consolante per tutti noi entrare in quella giusta dimensione della vita che la fede ci assicura e che purtroppo oggi sembra essere sconosciuta ai più: non vogliamo fratelli lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza (1Ts 4,13). Uno dei compiti fondamentali e illuminanti di un vescovo, di un prete, di un’intera comunità cristiana è propriamente quello di portare la speranza a coloro che altrimenti sarebbero nella disperazione. Di fronte alle tragedie di tutti i giorni, non abbiamo quasi mai la facoltà di cambiare il corso degli eventi, ma abbiamo sempre la possibilità gigantesca di portare la speranza, di illuminare le persone sulla fecondità misteriosa del dolore, sulla vicinanza di Dio, sull’importanza di ogni vita, qualunque sia stato il suo tragitto, su ciò che ci attende nelle braccia della Trinità.
Nella prima lettura che abbiamo ascoltato, il profeta Isaia ci ha parlato dell’opera di Dio: egli prepara per tutti un banchetto di grasse vivande (cf. Is 25,6). È un’immagine che narra la positività, la gioiosità di ciò che Dio ha in mente per ciascuno di noi. Egli strapperà il velo che copriva la faccia di tutti i popoli. Eliminerà la morte per sempre, asciugherà le lacrime su ogni volto (Is 25,7a.8a). I cristiani hanno nel mondo il compito di svelare il volto dei popoli, cioè di togliere quel velo che impedisce loro di vedere e di comprendere, aiutando tutti a leggere la storia di Dio che cammina dentro la storia degli uomini.
Di tutte queste cose don Carlo, come famigliarmente voleva essere chiamato dagli amici, è stato un grande maestro. Il suo compito innanzitutto come teologo, poi come vescovo, è stato quello di abbeverarsi continuamente alla verità di Dio per trasmetterla al popolo che gli era affidato, agli studenti di Milano e di Roma, ai ferraresi e ai bolognesi.
Abbeverarsi a Dio ha voluto dire per lui fondamentalmente: silenzio, preghiera, studio e insegnamento. La Sacra Scrittura, i Padri della Chiesa, i grandi maestri della Scolastica, i filosofi di ogni tempo sono stati i quattro pilastri della sua scuola. Questo è stato il fondamento su cui si è costruito tutto l’edificio del suo sapere.
Dio aveva donato a don Carlo una ragione pensante di straordinaria attività e profondità. Certamente, la ragione non sarebbe bastata e si sarebbe potuta anche piegare contro se stessa. Caffarra, nel lungo esercizio del suo magistero di professore e di vescovo, ha saputo coniugare continuamente la ragione con le ragioni della fede, ci ha mostrato i sentieri che la ragione può percorrere e quelli che solo la fede sa illuminare. Spero che presto possa essere a disposizione di tutti l’enorme tesoro del suo insegnamento, anticipato quasi come un aperitivo dai padri domenicani che hanno curato il volume intitolato: “Prediche corte e tagliatelle lunghe. Spunti per l’anima”.
Non posso né voglio dimenticare in questo mio ricordo il dono dell’amicizia. Don Carlo è stato veramente un’anima emiliana. Egli sapeva godere soprattutto della bellezza di un testo, di un quadro, di uno spettacolo della natura, di una poesia, di un cibo, di un romanzo e in modo particolare della musica. La sua risata, che scoppiava quasi imprevista sul suo volto pacificato e pacificante, diventava il segno del suo profondo approccio positivo all’esistenza. Non mancavano certo in lui parole e momenti di preoccupazione. Anzi, talvolta questi sembravano prendere il sopravvento e generavano in lui un ultimo abbandono a Dio, come gradino supremo della sapienza umana.
Sono contento di aver conosciuto don Carlo, di aver potuto vivere con lui tanti momenti della mia maturità e della mia incipiente vecchiaia, di essere stato testimone del suo infinito amore per la Chiesa e per il papa.
La Chiesa di Bologna ha avuto grandi padri nell’epoca a noi più vicina, oltre a don Carlo. Desidero qui ricordare, almeno per nome, coloro che ho potuto conoscere di persona: il cardinal Lercaro, il cardinal Poma, monsignor Manfredini, il cardinal Biffi. Come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, quando si poggia su un numero così grande di testimoni, si può coraggiosamente camminare nella storia (cf. Eb 12,1), vivendo la fecondità dell’appartenenza ecclesiale come dono di gioia e di luce a tutti gli uomini nostri fratelli.
Amen.