Omelia nella santa Messa di ringraziamento per il 70° genetliaco. Festa di san Carlo Borromeo
Cattedrale di Guastalla
Cari fratelli e sorelle,
la festa odierna di san Carlo Borromeo ci invita ad avere davanti a noi la figura attraente proposta dal capitolo X del vangelo di san Giovanni, figura che ha avuto un rilievo enorme in tutta la storia della Chiesa e anche nella storia dell’umanità: la figura del buon pastore. Una figura misteriosa, che suscita su di noi una vera e propria forza di luce. Ci attrae proprio perché comprendiamo che in essa sta racchiusa una profezia per la vita nostra e del mondo, una promessa di bene, che si realizza seguendo il buon pastore, ma anche diventando noi stessi pastori per l’umanità.
La lingua greca in cui è scritto il vangelo di san Giovanni usa un termine che dovremmo tradurre bel pastore. La sua bellezza non sta tanto in un fascino esteriore, superficiale, ma proprio nella radicalità con cui egli prende su di sé le nostre vite e ci conduce in avanti.
Non abbiamo forse oggi bisogno soprattutto di questi pastori, di questo pastore, che sappia indicarci le vie per camminare, senza diventare vittime delle molte trappole che occupano le nostre strade, un pastore che non ci indichi soltanto la via, ma che la compia con noi, preoccupandosi di aiutarci quando siamo stanchi, di rialzarci quando siamo caduti, di aspettarci quando siamo in ritardo, un pastore che stia avanti a noi e accanto a noi?
Quanto ha bisogno di questi pastori l’umanità di oggi! Chiediamo al Signore la grazia che egli li susciti, aprendo i cuori degli uomini, di quegli uomini, ai doni del buon pastore.
Ma entriamo ora, per comprendere meglio, nelle parole di questo sorprendente capitolo X del vangelo di san Giovanni.
L’immagine che ci viene presentata nei versetti iniziali del capitolo, che precedono quelli che abbiamo ascoltato, è quella di un ovile. È notte, le pecore dormono, custodite dal guardiano. L’ovile rappresenta tutta l’umanità, forse l’intero universo in cui gli astri infiniti sono figurati nelle pecore. Cristo è il pastore universale che raccoglie nel suo ovile tutte le pecore dell’universo, cioè i mondi infiniti, per consegnarli al Padre. È mattina presto. Arriva il pastore. Il guardiano apre la porta, il pastore entra, le pecore si destano dal sonno, lo riconoscono ed escono felici al suo seguito.
Ma il capitolo X di san Giovanni è tutt’altro che un idillio. Se lo leggiamo con attenzione, esso ci trasmette l’impressione di un tempo della storia attraversato da infiniti drammi e difficoltà, come il nostro. Non c’è infatti soltanto il pastore che entra dalla porta, ma ci sono tanti altri falsi pastori che cercano di entrare dalle finestre, dal tetto, introducendosi come dei ladri e dei briganti. Il loro scopo è la rapina. Sono pronti anche a uccidere per realizzare il loro progetto. Le pecore sono terrorizzate da questi rumori, mentre sono rassicurate dalla voce del pastore. Egli le conosce, le chiama per nome e sa quali sono le strade per condurle ai prati verdi e alle fonti fresche di cui parla il salmo 22, che rappresenta, nell’Antico Testamento, una illustrazione ante litteram di questo capitolo del vangelo.
Prima delle parole che abbiamo appena ascoltato, proclamate dalla liturgia, Gesù si presenta proprio come l’autentica porta per entrare nell’ovile. In quanto autentica porta, dobbiamo cercare lui, metterci alla sua scuola, immedesimarci con la sua vita, per potere comprendere qualcosa del tempo che passa e per potere diventare, a nostra volta, capaci di aiutare i nostri fratelli a riconoscere questa porta santa e a entrare nella vita attraverso di essa.
Ma eccoci dunque al brano che abbiamo appena ascoltato. Come definisce Gesù il buon pastore? Come colui che dà la vita. È chiaro che qui Gesù pensa al mistero del suo dialogo con il Padre racchiuso nel segreto che precede ogni tempo. È lì, nel rapporto con il Padre, che egli ha deciso la sua donazione. Pensa a ciascuno di noi per cui egli dà liberamente la vita, per poi riprenderla di nuovo nella sua resurrezione, portando ognuno di noi con sé. E ancora qui il tono diventa drammatico. Ci sono coloro che, invece di donare la vita, vogliono rapirla. Sono come dei mercenari che favoriscono la venuta dei lupi e fuggono in loro presenza. La visione di Gesù ci riporta al nostro tempo. Dobbiamo imparare a riconoscere i mercenari che, in ragione della loro avidità di soldi, vogliono rapire la nostra vita: i mercenari che rapiscono ai giovani la loro esistenza, allontanandoli dal volto buono e accogliente del buon pastore, dal suo magistero, dalla sua compagnia, dalla sua comunità, con i falsi miti della felicità che possono venire dalla droga, dal sesso a buon mercato, dai furti, dalla dimenticanza di sé. Quanto hanno bisogno i nostri giovani del buon pastore e di buoni pastori! Ma il buon pastore è necessario a ogni stagione della vita. Non solo per i nostri piccoli, ma anche per noi, che abbiamo necessità di essere continuamente riscattati dall’idolatria e aperti all’unica promessa che non fallisce.
In questa festa di san Carlo, il nostro pensiero non può non correre a lui, al santo che tanto amiamo e ammiriamo, a come egli ha vissuto nella sua vita la realtà del buon pastore. Tante altre volte ne abbiamo parlato. Questa sera, nell’occasione certo più trascurabile dei miei 70 anni, non posso non chiedermi: “Quale immagine sono e sono stato del buon pastore?”. Una lettura della mia vita in questa chiave mi spaventerebbe e non oso neppure percorrerla. Chiedo soltanto al Signore la grazia di continuare a donarmi a lui e al suo popolo, a voi, nella letizia, senza spaventarmi di ciò che egli mi chiede, senza calcoli, contando soltanto sulla generosità della sua grazia e sulla bellezza dell’attrattiva che egli esercita sempre attraverso tanti di voi nella mia vita.
Non posso concludere queste mie parole, senza un ringraziamento al Signore, per quanto egli mi ha donato, e senza un ringraziamento a voi, che siete l’eco feconda della sua carità.
+ Massimo Camisasca