Intervista rilasciata a Stefano Scansani, direttore della Gazzetta di Reggio
Gazzetta di Reggio
Monsignore, qual è lo stato della fede dei reggiani e nel Reggiano?
Lo stato della fede è difficile da misurare, perché la fede non si pesa a chili. Però devo dire che sono rimasto stupito, durante la visita pastorale, nel vedere quanto la fede muova le persone. Questa gente, così attaccata alla propria terra e al proprio lavoro, è anche in moltissimi casi profondamente attaccata alle tradizioni e quindi alla fede cristiana. La vive come attaccamento ai riti, ai patroni, alle proprie parrocchie, ai sacramenti, ma anche come comunità di persone che si fonde con la comunità civile senza confondersi con essa. E’ una fede profonda, che sa attraversare gli avvenimenti, che ha saputo superare i momenti di difficoltà, che chiede di essere continuamente rinnovata.
Molti vescovi segnalano il fenomeno della scristianizzazione della nostra società occidentale, europea, italiana. Arriviamo fino a Reggio?
Scristianizzazione vuol dire che tutto ciò che il cristianesimo ha portato come concezione della vita dell’uomo regredisce. Sì, ci sono aspetti di regressione non solo ovviamente a Reggio, ma in Italia e nell’Occidente: sono quelli a cui fa riferimento Papa Francesco. Io ritengo che l’aspetto di regressione più profondo riguarda la concezione dell’uomo quando è visto semplicemente come una macchina che deve lavorare e produrre, quando l’uomo è considerato unicamente come un essere che vive per il godimento o come un individuo che stabilisce relazioni fugaci soltanto in ragione dell’utilità mondana. Allora sì, possiamo dire di essere in presenza di una scristianizzazione.
Lei al riguardo è pessimista?
No. Non sto parlando in termini pessimistici. La fede, per poter vivere, deve continuamente rinascere. Siamo in un periodo difficile, in un tempo nel quale le nazioni e i popoli devono ritrovare le ragioni del proprio presente e del proprio futuro per poter continuare a vivere.
La maggiore preoccupazione?
Uno degli effetti della scristianizzazione io lo vedo nella perdita della speranza, nella grande denatalità che sta conoscendo l’Europa e in particolare il nostro Paese.
La Chiesa reggiana si è data un nuovo modello organizzativo: le unità pastorali. E’ un sacrificio che viene chiesto ai preti o alle comunità?
Io non parlerei di sacrificio. Non bisogna pensare alle unità pastorali come a un dovere, a una tassa da pagare in ragione della diminuzione del clero. Tutti questi aspetti ci sono. Ma io li vedo in un’ottica positiva, e non sono un utopista. Sarebbe non solo opportuno, ma anche bello, realizzare delle comunità di sacerdoti, diaconi e laici che possano costituire come delle “piccole città sul monte”, che mostrino la forza attrattiva del cristianesimo e possano attrarre a sé la gente, i popoli, così come ne parla il profeta Isaia.
Alcuni giorni fa lei ha fatto un riferimento al modello medievale.
Parlavo del medioevo delle Pievi. Non perché sogno un ritorno al medioevo, ma perché l’immagine della Pieve, di un centro dal quale s’irraggino altri centri sul territorio, mi sembra quella visivamente più interessante per comprende ciò che sta avvenendo oggi.
Ecco, il territorio reggiano ha tradizioni sociali e politiche forti, molto calde e colorate, addirittura filmiche su quello che è stato il Novecento delle contrapposizioni. Il combattimento fra il comunismo e i cattolici è esaurito: che cosa resta di traumatico o prezioso di quel confronto?
C’è stato un arduo confronto politico e culturale negli anni Cinquanta che purtroppo ha visto episodi di sangue molto gravi. Poi c’è stato un confronto maggiormente ispirato al sociale, e penso all’episcopato di mons. Baroni, durante il quale la Chiesa e i cattolici reggiani hanno saputo confrontarsi, attraverso la creazione di opere sociali, con tutto il fenomeno cooperativo. Successivamente, con il crollo del muro di Berlino, abbiamo assistito a un posizionamento diverso delle “due Chiese”. Direi che oggi abbiamo una crisi generale di socialità: l’individualismo – sostenuto e premuto dai mezzi di comunicazione e soprattutto dai centri di potere che preferiscono l’uomo solo anziché l’uomo in comunità –sembra essere il dogma vincente. Tutti quanti abbiamo bisogno di una riscoperta di socialità. Quella cristiana trova la sua origine in un disegno di Dio. Il più grande compito che la Chiesa ha da svolgere è quello di mostrare Cristo come fonte di speranza.
La nota dominante in questa società è l’assenza di speranza, cioè la paura. L’opposto della paura non è tanto il coraggio, ma la speranza. Penso che la Chiesa ha il grande compito di dire quali sono le ragioni realistiche della speranza: l’uomo non è definito dal suo male; il male può essere perdonato; la vita non finisce con la morte.
Sta parlando del male. Come le infiltrazioni mafiose. In un passato non tanto remoto un cardinale disse che la mafia non esiste, in questa provincia bisogna prendere atto che sussiste eccome. La Chiesa la fulmina?
Innanzitutto la mafia esiste. Esiste nelle sue forme diverse. Ci eravamo illusi che fosse un fenomeno del sud, invece esiste in tutto il Paese e lo vediamo da Mafia Capitale fino al processo Aemilia che si svolge a Reggio. Le mafie, e quindi la ‘ndrangheta, sono capaci di assumere volti sempre nuovi e sono un gravissimo danno al Paese, perché inquinano la realtà del lavoro, i rapporti fra lavoro e impresa… Sostanzialmente sono associazioni criminali. Quando leggiamo delle lotte fra bande capiamo che lì, in nome del possesso del territorio e del denaro, non si ha alcuna preoccupazione di fronte alla morte dell’altro, anche se fa parte della propria famiglia carnale.
La Chiesa, anche quella reggiana, è in prima linea?
La posizione della Chiesa, soprattutto oggi, dopo che si è preso coscienza in modo chiaro di che cosa sia questa realtà criminale, non può che essere univoca. Siamo di fronte a un grave danno per l’uomo e per la società.
Mi sono chiesto da dove può nascere un fenomeno del genere. Non voglio esaminare qui le ragioni storiche, ma dire soltanto che una simile barbarie non può avere come radice che il disprezzo totale della vita dell’uomo come persona. Quello che da Giovanni Paolo II fino a papa Francesco, la Chiesa ha gridato, “Pentitevi!”, cioè cambiate mentalità, implica una riscoperta delle vere ragioni che possono rendere l’uomo uomo, una riscoperta delle vere fonti della gioia, della serenità, della vita. I mafiosi sono degli infelici, dei disperati. La Chiesa li invita alla conversione.
Una medicina di fede contro le infiltrazioni mafiose?
La mafia attecchisce quando l’uomo ritiene di essere Dio.
Monsignore, veniamo alla politica che amministra la città e il territorio. Qualche consiglio utile?
Non hanno bisogno di consigli dal vescovo. Ho un ottimo rapporto con gli amministratori e le figure istituzionali. Ricordo con stima il prefetto, il questore, i responsabili delle forze dell’ordine, il sindaco, il presidente della Provincia… Ciascuno, rispettando la storia dell’altro e i compiti istituzionali propri, lavora per il bene di questa città e di questa Provincia. Soprattutto nell’individuare quelle che sono le realtà costruttive, nell’aiutarle e nel sostenerle. Ci sono molte realtà positive, sia nel campo del lavoro, sia in quello della socialità, dell’assistenza, del volontariato. Tutto ciò, se conosciuto ed aiutato, può fare veramente grande questa realtà.
Lei crede che nella Chiesa esista un movimento resistenziale ratzingeriano rispetto all’attuale pontificato di Papa Bergoglio?
Sinceramente non vedo che cosa vorrebbe dire.
Qual è la rotta del suo episcopato?
Penso di proseguire sulla strada iniziata, che descriverei così: una grande attenzione al seminario, ai preti, soprattutto di recente ordinazione; una grande attenzione ai diaconi, che mi ha spinto a scrivere una prima lettera pastorale a loro dedicata; una grande attenzione al laicato. Perché i laici costituiscono la Chiesa. Noi sacerdoti veniamo ordinati in funzione del popolo di Dio, non in funzione nostra. Siamo servitori di Cristo e del corpo di Cristo. Perché queste attenzioni possano esprimersi ho cercato dei collaboratori. In curia si lavora bene e si lavora assieme. Continuerò nella visita pastorale, cercherò di dare maggiore organicità alla vita dei centri pastorali e di affrontare quelle che vorrebbero essere le due direttive fondamentali del mio episcopato: l’insegnamento attraverso la parola e un dimagramento degli impegni amministrativi, che è però difficile per molte ragioni.
Ogni vescovo ha una sua caratteristica, la propria personalità, il suo modo di fare pastorale. Lei si è definito il vescovo del dialogo. Ma da quel che si intuisce senza tuonare dal pulpito o interferendo.
Io sono soprattutto me stesso e non saprei agire diversamente. Non amo i clamori, la contrapposizione, ma la verità nella carità. Quello che penso sia mio dovere dire lo dico nelle omelie, nei discorsi, negli incontri, nelle visite pastorali. Nello stesso tempo sono profondamente convinto che proprio la verità crea unità. E quindi sto lavorando perché le diverse e ricche anime della Chiesa reggiana s’incontrino e s’aiutino reciprocamente.