Omelia per il 7° anniversario della morte di Chiara Lubich
- Reggio Emilia, Basilica della Ghiara
15.03.2015
Cari fratelli e sorelle, carissimi amici,
con grande gioia ho accettato l’invito a celebrare questa santa Messa in memoria di Chiara.
Ho avuto la grazia di conoscere Chiara e di parlare con lei diverse volte. Nel suo personale carisma e nel suo indomito amore a Cristo, alla sua Chiesa e ai fratelli, ho riconosciuto il dito di Dio, il riverbero di qualcosa che anche io, in forme diverse, stavo vivendo assieme a don Giussani.
Anche per questo è nata subito una reciproca empatia, alimentata dalla scoperta comune che Cristo presente in mezzo a noi rende grande e piena di speranza la vita.
Ma la ragione più grande della mia gioia è legata al dono di Chiara, non solo per il movimento che da lei è nato, ma per la Chiesa intera. Celebriamo questa Messa a poche settimane dall’apertura canonica del suo processo di beatificazione, un processo che, a Dio piacendo, indicherà autorevolmente in Chiara un modello per tutti i cristiani del mondo.
Penso alle parole che Albino Luciani, il futuro papa Giovanni Paolo I, ebbe a dire riferendosi a santa Teresa di Lisieux. Possono ben descrivere anche l’esperienza che faceva chiunque si accostasse a Chiara: “in apparenza la storia dolce di un fiorellino bianco, in realtà storia di una sbarra d’acciaio per la forza di volontà, il coraggio e la decisione che rivelava” (cfr. Albino Luciani, 1973).
Nata a Trento nel 1920, lo stesso anno di papa Wojtyła, alla fine della guerra aveva venticinque anni. Sentiva fortemente su di sé il peso della distruzione che vedeva da ogni parte, ma anche una vocazione profonda a ricostruire. Tutte le volte che la incontravo trovavo in lei qualcosa di Alcide De Gasperi: forse per la comune nascita trentina, per la stessa parlata, soprattutto per la stessa forza d’animo e per la medesima determinazione. Come De Gasperi, la Lubich fu una persona capace di costruire. Ma dove trovava la forza, la strada per tale impresa? Ella la trovò in Cristo, avvertito come presente, come colui che sana i cuori e li riconduce all’unità. Dove due o tre sono riuniti nel mio nome là sono io (Mt 18,20); che tutti siano una cosa sola (Gv 17,21): sono le due espressioni di Gesù che più ho sentito ricordare sulle sue labbra.
Con un gruppo di amiche comincia una cosa nuova. Dopo aver aderito al Terz’ordine francescano, cambiano nome (lei prima si chiamava Silvia), vanno ad abitare assieme. Creano il primo Focolare, un luogo caldo, luminoso come è appunto il fuoco che avrebbe dovuto rischiarare e sciogliere il gelo di quegli anni e del cuore degli uomini. «Se in una città, nei punti più disparati, s’accendesse il fuoco che Gesù ha portato sulla terra e questo fuoco resistesse per la buona volontà degli abitanti al gelo del mondo, avremmo fra non molto la città dell’amor di Dio. Ma c’è un segreto, perché quella cellula infuocata s’allarghi a diventare tessuto e vivifichi le parti del mistico Corpo: non sopportare la croce, qualsiasi volto essa abbia, ma attenderla e abbracciarla minuto per minuto, come fanno i santi» .
L’esplicito richiamo a Chiara di Assisi non è casuale. «Amavo la santa di Assisi perché, quando si era consacrata a Dio, e san Francesco, tagliandole i lunghi capelli, le aveva chiesto “Figliuola, cosa cerchi?”, lei aveva risposto semplicemente: “Dio”» . La fondatrice dei Focolari riprende l’intenzione profonda di Chiara d’Assisi. Il cuore del movimento è un istituto secolare i cui membri vivono assieme, in case, richiamandosi ai voti tradizionali di povertà, obbedienza e castità. Con la scelta di Chiara Lubich Dio ha voluto mostrare a tutta la Chiesa che iniziava un tempo nuovo: il tempo dei laici. È singolare, infatti, che dopo secoli di preti e religiosi fondatori, il nuovo movimento, che avrà parecchie centinaia di migliaia di aderenti, nasca attraverso una donna.
Negli occhi la morte di tanti innocenti, di molte persone amate, le case distrutte, la civiltà da ricostruire: le prime ragazze che si strinsero intorno a Chiara cercavano un ideale che potesse non morire. Incontrando lei, quella giovane donna piena di energia che possedeva una certa naturale bellezza, scoprirono che Dio e solo Dio è l’unico ideale adeguato per la vita. Stare unite a lui e tra loro: questo fu il manifesto del nascente movimento. [Come ricorda Dori Zamboni, una delle prime focolarine: «L’ideale era costruire l’unità, o forse meglio un’armonia: armonia di pensiero, di volontà, di stile, di vita e soprattutto di cuore e di anima». Tutto ciò è possibile solo se c’è “Gesù in mezzo”, come presto diranno i focolarini sintetizzando in una sorta di slogan quell’intuizione che sta all’origine del loro carisma.]
Il nome di Dio è amore (cfr. 1Gv 4,8.16). Essere riuniti nel mio nome (Mt 18,20) significa perciò essere riuniti nell’amore di Cristo e dunque nell’amore reciproco. Uomini e donne che si amano in Cristo sono visitati da lui, «hanno la presenza di Gesù, esiste tra loro la presenza di Gesù».
Per Chiara il centro dell’universo è un fuoco, l’umanità di Gesù, “Gesù fra noi”. Da quel fuoco si irraggiava l’unità tra le persone, anche attraverso l’esperienza del sacrificio, del dolore e della morte. Chiara parlava di “Gesù abbandonato”. Gesù crocifisso e abbandonato fu davvero per lei il motivo supremo di commozione, il motivo di ogni sua azione. Chiara vedeva in lui ogni persona e situazione e lo avrebbe servito in quelle stesse persone e situazioni.
Cari amici, chiediamo anche per noi lo stesso sguardo di Chiara, il suo stesso ardore, la sua stessa fede. Chiediamolo per sua intercessione, ringraziando il Padre di avercela donata e pregando perché la sua figura possa presto diventare un faro della cui luce tutta la Chiesa possa risplendere e nella quale tutti gli uomini possano riconoscersi in unità.
A voi in particolare, cari amici focolarini, il compito di riscoprire e rivivere nel nostro tempo e nelle nostre terre, ciò che Chiara vi ha consegnato per il bene di tutti.
Sia lodato Gesù Cristo.