Omelia nella santa Messa per il 50° anniversario dell’inaugurazione dell’Arcispedale Santa Maria Nuova
- Reggio Emilia, Arcispedale Santa Maria Nuova
15.05.2015
Cari fratelli e sorelle,
il mio saluto va anzitutto a coloro che sono ricoverati in questo Ospedale, a coloro che in questo luogo soffrono e sperano. Saluto poi con particolare gratitudine i medici, gli infermieri, i volontari e il personale paramedico, che con il loro lavoro e la loro competenza si adoperano per l’accoglienza, la cura e l’accompagnamento di tutte le persone che a loro si rivolgono.
La prima parola che desidero dire in questo luogo è grazie. Grazie per tutto il bene che in 50 anni questo ospedale ha fatto per gli uomini e le donne della nostra terra e di altre regioni. Grazie per lo spirito di servizio, per il continuo rinnovamento e la riqualificazione che questo luogo di cura ha vissuto in questi anni.
Mentre celebriamo i 50 anni di questo edificio, desidero ricordare che tutto ciò che qui si è inaugurato nel 1945 affonda le sue radici nella cura e nella carità cristiana verso i malati e i sofferenti che in vari modi, e appoggiandosi a varie strutture, la città e la Chiesa di Reggio Emilia hanno vissuto almeno fin dal Medioevo.
Da allora grandi passi sono stati fatti nel campo della medicina e della cura, grazie allo sviluppo delle scienze e al virtuoso connubio tra medicina e tecnologie. Ma ciò che è essenziale era presente fin dall’inizio: il desiderio di prendersi cura dell’altro. Se perdessimo questa radice, perderemmo anche il senso profondo di tutto ciò che facciamo. Tutto si ridurrebbe a professionalità fredda, a ricerca intellettualistica e, soprattutto, ci si fermerebbe impietriti di fronte alle malattie che oggi non possiamo ancora guarire.
Certamente occorre lavorare per la guarigione, ma – come voi stessi potete sperimentare – ciò che non si può guarire si può sempre curare. Il prendersi cura è ciò che, al di là di ogni risultato, più contraddistingue la vostra vocazione. «Il nostro mondo – ci ha ricordato papa Francesco – dimentica a volte il valore speciale del tempo speso accanto al letto del malato, perché si è assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro» (. Se questo è vero per ogni uomo, lo è in modo particolare per coloro che grazie alla loro professionalità sono posti ogni giorno accanto ai malati. Nessuna persona può essere ridotta alla sua malattia. L’esperienza del limite di fronte ad alcune patologie inguaribili non esime nessuno dalla cura della persona ammalata ed esige, anzi, un allargamento del nostro cuore e della nostra umanità. Ci pone al confine con qualcosa di molto misterioso.
«Nella lotta contro il dolore fisico si è riusciti a fare grandi progressi – scriveva Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza –; [ma] la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità, semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male» .
La sofferenza rimane un mistero che l’uomo non può penetrare fino in fondo con la sua intelligenza. Ma poiché essa occupa un posto importante nella vita di tutti gli uomini, «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente» .
Cari ammalati, ricordate che il vescovo vi è vicino! Vicino con la preghiera e l’offerta del suo lavoro. Ma soprattutto ricordate che Dio vi è vicino, anche se non lo avvertite o lo considerate lontano dal vostro cuore. Prima e più di voi Dio stesso, nella persona di suo Figlio, ha sofferto e offerto la sua vita per ognuno di voi. Il Cristo ha assunto su di sé la sofferenza di tutti gli uomini. Egli ha vissuto nella sua vita la fatica, l’ostilità, la solitudine. Questo accettare su di sé le sofferenze ed il male di tutti, per amore del Padre, che glielo chiedeva, e degli uomini, di cui si è fatto fratello, costituisce l’opera della salvezza.
Scrive Giovanni Paolo II: «nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché Egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell’amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato» .
Il Redentore ha sofferto al nostro posto e per noi, ma ci chiama misteriosamente a partecipare a quella sofferenza. Sta qui la misteriosità inarrivabile della vocazione alla sofferenza. Ciascuno, anche indipendentemente dalla sua fede, può partecipare alla sofferenza di Gesù e quindi alla sua opera redentiva.
Nessuna sofferenza è senza peso, nessuna offerta va perduta. Attraverso la sua sofferenza ciascun uomo è chiamato ad amare tutti gli altri uomini e Dio stesso, secondo una sapienza che noi non possediamo interamente, ma che non contraddice le aperture più alte della ragione.
Cristo non ha spiegato in astratto le ragioni della sofferenza, ma ha vissuto la sofferenza e il dolore in prima persona. Nella sua Lettera sul dolore Paul Claudel ha scritto: «Il dolore è una presenza ed esige perciò la nostra presenza. … Il Figlio di Dio non è venuto a distruggere la sofferenza, ma a soffrire con noi. Non è venuto a distruggere la Croce, ma a distendervisi sopra» .
Cari amici,
a conclusione di queste mie considerazioni, desidero consegnarvi le parole di Gesù nel Vangelo che abbiamo ascoltato. Siano esse fonte di speranza e di pazienza nella prova che in questo momento attraversate: la vostra tristezza si cambierà in gioia […]. Voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia (Gv 16,20.22-23).
Non sprecate dunque la sofferenza che in questi giorni vivete. Offritela in unione al sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo e, se posso chiedervelo, anche perché il Signore continui a benedire il mio ministero in mezzo a voi.
Amen.