Aiutateci a disegnare il futuro
- Reggio Emilia, museo diocesano
24.01.2015
Il valore dell’incontro che abbiamo vissuto è duplice: da un lato abbiamo iniziato un lavoro su temi che ci toccheranno sempre di più e che riguardano la conoscenza di popoli un tempo lontani ed oggi vicini a noi. Dall’altro abbiamo intrapreso la ricerca di strade che possono portarci verso il futuro. Sono temi che sempre di più desidererei affrontare con voi giornalisti, con voi uomini e donne di questa nostra Chiesa per poter dare assieme un contributo alla costruzione di ciò che verrà. esidero attestare la gratitudine mia e della nostra Chiesa ai giornalisti, in particolare a quelli della nostra terra reggiana, della carta stampata e dei siti web, ai fotografi e a tutti coloro che lavorano per farci conoscere ciò che accade. È un lavoro difficile, perché deve rispondere a molte istanze: ai lettori, che dovrebbero essere il punto di riferimento fondamentale della professione giornalistica, ai proprietari delle testate, ai direttori.
Voi dovete aiutare la conoscenza mettendo in rapporto fatti e lettori. Vi ringrazio per il lavoro che fate. Sono consapevole delle difficoltà che incontrate, legate alla trasformazione, in atto da parecchi anni, generata dalle nuove tecnologie. Sono partecipe della vostra battaglia e del vostro cammino verso un compito sempre più appassionante e fedele alle ragioni che l’hanno originato.
Credo ancora in un giornalismo che, anche nell’era virtuale, possa essere fedele ai fatti, che ci possa raccontare ciò che accade e aiutare a comprenderlo. Penso, anzi, che in fondo un giornalista possa essere veramente soddisfatto del proprio lavoro se vive questa fedeltà ai fatti. L’affermazione di Gesù: Solo la verità ci rende liberi (cfr. Gv 8,32) dice innanzitutto questo.
La paura del futuro
In questo momento viviamo tutti una grande incertezza riguardo al futuro.
Nella maggior parte dei miei incontri trovo questa incertezza nei riguardi del domani. Non voglio entrare in un’analisi delle cause di tale insicurezza, voglio piuttosto dire alcune ragioni di speranza.
L’incertezza riguardo al futuro non è una cosa nuova nella storia dell’uomo. Se consideriamo tutte le epoche, vediamo che ci sono dei momenti particolari in cui qualcosa muore e qualcosa di nuovo nasce. Noi siamo in uno di questi momenti, stiamo vivendo il travaglio del parto, il momento del dolore e della fatica. Speriamo di poter assieme approdare ad una nuova nascita, ad una nuova sintesi, una nuova formulazione della nostra convivenza, del nostro lavoro e dei nostri affetti.
Leggendo e rileggendo sant’Agostino, in particolare La città di Dio, mi immedesimo con quelle che potevano essere le domande delle persone colte del suo tempo. Sembrava che tutto dovesse finire; sembrava che dovesse finire non solo l’Europa e il nord Africa, ma l’intero mondo allora conosciuto. Agostino ha avuto la lungimiranza e la profondità di riconoscere che non era così!
Anche noi dobbiamo vivere questa lungimiranza. Non la superficialità che porta a minimizzare i problemi, ma la capacità di disegnare, all’interno dei problemi, le linee del nostro futuro. Vorrei che questa fosse l’ottica con la quale attraversiamo il nostro presente. Abbiamo vissuto anni di lamenti, di disperazioni, di fatiche. Il lamento non fa storia. La storia è invece costruita dall’individuazione delle strade di un nuovo disegno di civiltà e di convivenza.
Quali sono le ragioni dell’insicurezza odierna? Sono ragioni difficili da delineare. Vorrei dirne qualcuna per poi avviarmi a illustrare quali siano le strade fondamentali per costruire il futuro.
Una prima ragione di insicurezza è legata al cambiamento accelerato del nostro tempo. La globalizzazione ci fa sentire cittadini del mondo. Possiamo essere dovunque stando nella nostra casa e conoscere, o avere l’illusione di conoscere, molto di più di un tempo; possiamo anche viaggiare più facilmente. Ma tutto ciò rischia di farci sprofondare, paradossalmente, in una visone particolaristica.
L’impressione di poter “essere tutto” si capovolge nell’impressione di “poter essere nulla” e quindi nella necessità di legarci a piccole cose perché quelle grandi le abbiamo cercate e non le abbiamo trovate. Ecco l’esaltazione dei localismi e dei sentimenti brevi, che sono due aspetti diversi, ma entrambi originati da questo spaesamento: ci si rinchiude nel piccolo perché il grande, ormai, ci ha dato le vertigini e una certa insicurezza radicale.
Questo dei sentimenti brevi penso sia, fra l’altro, uno dei maggiori frutti negativi delle tecnologie e dei rapporti virtuali. Non si è più capaci di costruire qualcosa che duri perché l’abitudine al rapporto virtuale ci fa sentire come possibile soltanto la rifrazione di noi stessi. È una forma di narcisismo che ci impedisce di costruire qualcosa che travalichi oltre l’oggi.
Anche la crisi delle verità ha contribuito a dare questo senso di totale insicurezza. Paul Claudel, nella sua Scarpina di raso – un’opera teatrale paragonata da Von Balthasar alla Divina Commedia di Dante – presenta all’inizio l’immagine di un padre gesuita naufrago che riesce ad abbarbicarsi sui resti di legno della nave come, commenta Claudel, per abbarbicarsi a una croce. È abbarbicato alla croce, ma la croce da che cosa è sostenuta? Ratzinger, all’inizio della sua Introduzione al Cristianesimo, parlava di questa immagine come descrittiva del momento in cui siamo. La crisi delle verità ha portato oggi a una serie infinita di incertezze. Quelle più gravi riguardano la fondazione del diritto.
Un altro elemento di insicurezza è legato poi all’incertezza sulle forme della rappresentanza politica: assistiamo a una crisi molto forte dei partiti e dei rapporti fra gli stati.
Le strade della ripresa
Abbiamo una bussola che ci permetta di attraversare positivamente e costruttivamente il presente e ci slanci con fiducia verso il futuro? Le sintesi nuove, dal mio punto di vista cristiano, nascono come un miracolo, ma nella storia degli uomini esse hanno bisogno di decenni e di secoli per sorgere e affermarsi, non sono costruzioni di un istante. Quanti milioni di cristiani ci vogliono perché nasca un Tommaso d’Aquino? Quante decine di migliaia di cristiani ci sono stati perché potesse esserci sant’Agostino? Allo stesso modo anche le nuove sintesi hanno bisogno di lunghi anni.
Una prima bussola di orientamento può essere quella di rispondere assieme alla domanda: “chi è l’uomo?” partendo dalle nostre esperienze. Per questo, dopo i fatti di Parigi, nel mio piccolo testo, in cui esecravo l’accaduto, ho invocato anche dei luoghi in cui ci si ritrovasse per parlare assieme delle esperienze che ci contraddistinguono.
Chi è l’uomo? Non è una domanda di parte, ma la domanda di un uomo fra gli uomini. Potremmo ritrovarci assieme per aiutarci a dare delle risposte. In questo senso vorrei riprendere l’invito fatto più volte dal cardinal Scola, arcivescovo di Milano, a creare luoghi di incontro e di racconto, luoghi che coniughino la memoria con l’ascolto.
L’uomo può fare a meno di Dio? Penso che l’uomo non possa raccontare se stesso escludendo il rapporto con gli altri e con Dio, eliminando di fatto il suo essere “altissimo” ma incompiuto, il suo essere fondamentalmente creatura. L’uomo non può fare a meno di riconoscere la sua creaturalità. Se non riconosce il proprio limite pone le premesse della propria distruzione. Se non siamo creatura significa che siamo Dio. Ma se siamo Dio, allora per ognuno di noi vale il detto del commediografo latino Plauto: homo homini lupus (Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495). Ho visto qualche sera fa il film “The giver” che presenta una società – e fa venire in mente Il padrone del mondo di Benson – in cui, per abolire la guerra, sono stati programmaticamente aboliti gli affetti. Si è abolito l’amore. Quando uno di dei protagonisti riscopre l’amore, scopre che è impossibile costruire il mondo senza il rischio della libertà e capisce che questo rischio coincide con il riconoscere la casa da cui veniamo.
Occorre coniugare la storia, i valori che ci costituiscono, con l’ascolto degli altri. La nostra storia non è un peso, ma una chance. Tutta la nostra storia, pur segnata da tanti limiti, incertezze e ombre, non è un peso. Non dobbiamo avere vergogna di noi stessi. Povera Europa che non ha più il coraggio della propria storia! La denatalità è il segno più grave, più acuto, più profondo di questa paura che invade l’Europa.
Un’altra bussola per orientarci è quella di non chiamare col nome di Dio i nostri desideri di difesa e di sopraffazione: questo è un grande contributo che Gesù ha dato alla storia del mondo e che i popoli – e i cristiani stessi – solo nel tempo, progressivamente, hanno iniziato a riconoscere e tradurre nella propria storia. Come papa Ratzinger più volte ha sottolineato, la stessa Rivoluzione francese, con i suoi princìpi di libertà, uguaglianza e fraternità, ha affermato dei valori cristiani. Dobbiamo essere grati alla storia dell’Europa per averci portato fin qui e per averci portato a non chiamare col nome di Dio i nostri desideri di sopraffazione degli altri.
Nello stesso tempo, con il nostro orizzontalismo cinico, offriamo armi e non risposte adeguate a chi ha sete di ascolto e non si accontenta del nostro modello di vita. È terribile quello che è stato fatto nei confronti della redazione di Charlie Ebdo, ma non possiamo pensare che l’offerta del nostro orizzontalismo cinico basti a colmare la sete di assoluto, magari confusa, che abita i cuori di tanti uomini anche nell’Islam. Non è possibile pensare che chi non si accontenta della degenerazione del nostro modello di vita, lo debba per forza accettare o addirittura ne debba essere affascinato.
Abbiamo molto da offrire ai popoli che si insediano da noi, ma abbiamo anche molto da ricevere. Che cosa abbiamo da ricevere? Questo è il lavoro che ci attende. Date a Dio e date a Cesare (cfr. Mt 22,21): non possiamo separare la laicità dall’apertura a ciò che ci trascende e dal rispetto delle fedi su cui si fondano i popoli e le storie personali.
Abbiamo davanti un compito grande. Voi giornalisti potete contribuire a svolgerlo o a ritardarlo. Ciascuno di noi può farlo, ma voi siete in prima fila. Si può coniugare dignità del proprio lavoro e risposta alle contingenti strettoie del momento. Abbiate, se appena è possibile, un orizzonte grande; non lasciatevi morire nei particolari, ma aiutateci a disegnare il futuro che ci attende.Grazie.
+ Massimo Camisasca
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