Omelia nella Santa Messa delle Ceneri
- Cattedrale di Reggio Emilia, 13 Febbraio 2013
13.02.2013
Cari fratelli e sorelle,
con il rito dell’imposizione delle ceneri iniziamo oggi la Quaresima, un tempo prezioso che Dio ci dona per convertire il nostro cuore e prepararlo alla gioia della Pasqua, all’incontro con Cristo immolato e risorto.
Le letture che abbiamo ascoltato ci introducono in questo itinerario di conversione. Il vangelo, in particolare, ci indica le tre strade fondamentali di questo itinerario: la preghiera, l’elemosina e il digiuno. Queste vie non sono soltanto una preparazione alla Pasqua, ma – come sottolinea la liturgia di oggi (per fructum boni operis reficiantur in mente) – ne costituiscono già un frutto, anticipano in noi la letizia e la luce della resurrezione. Sono strade della nostra immedesimazione con Gesù. Egli rende capace il nostro cuore di amare in modo autentico, di vivere quella profonda unità tra fede e carità di cui parla il Papa nel suo messaggio per la Quaresima.
Per comprendere questo testo di s. Matteo (Mt 6, 1-18), sul quale desidero questa sera soffermarmi, dobbiamo leggerlo nel contesto in cui l’autore sacro l’ha collocato, cioè all’interno dei capitoli 5, 6, 7, che costituiscono l’annuncio delle beatitudini e il commento ad esse.
Innanzitutto l’annuncio delle beatitudini. Se la Chiesa ci propone in questo tempo una strada di penitenza, è perché essa ha a cuore la nostra beatitudine. Il cristianesimo non è la religione del dolore, non è la religione della penitenza fine a se stessa. È, invece, il cammino verso la Pasqua, il cammino nella Pasqua. Per entrare nella Resurrezione, per entrare nella vita – come dice Gesù (Mt 18,8.9) – occorre purificare il nostro sguardo e il nostro cuore da tutto ciò che ci impedisce di vedere e di gustare quanto è stato preparato per noi, da tutto ciò che ci impedisce di essere giusti. L’uomo giusto è colui che vive un rapporto autentico con se stesso, con gli altri, con Dio. Queste strade che la Chiesa indica per la Quaresima – la preghiera, l’elemosina e il digiuno – sono proprio le strade della giustizia: della giustizia verso Dio (la preghiera), della giustizia verso se stessi (il digiuno) e verso gli altri (l’elemosina).
Non è un caso che proprio questi capitoli che commentano le beatitudini siano occupati dal dibattito sulla giustizia, sintetizzata nell’espressione di Gesù al versetto 20 del capitolo quinto: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Nel libro di Tobia troviamo unite queste quattro parole: buona cosa è la preghiera con il digiuno, e l’elemosina con la giustizia (Tb 12, 8). Preghiera, digiuno, elemosina, costituiscono dunque un triplice cammino verso la realizzazione della giustizia che ha animato la spiritualità di Israele nel momento del più grande disorientamento e della dissoluzione del popolo. Meglio il poco con giustizia, che la ricchezza con l’ingiustizia. Meglio è praticare l’elemosina che mettere da parte oro (Tb 12, 8). Gesù, che conosce l’Antico Testamento, che è venuto non per cancellare ma per compiere, parte proprio da questo versetto di Tobia per parlare con i suoi della vera giustizia.
Così nasce questo testo del capitolo sesto di san Matteo, che è stato giudicato un testo importante fin dalla prima comunità, a tal punto che si è voluto costruirlo secondo uno schema letterario che ne facilitasse la memorizzazione.
La nuova giustizia che Gesù insegna consiste in un passaggio dall’esteriorità all’interiorità, supera l’impossibile adeguazione ad una legge esteriore attraverso il dono dello Spirito. È possibile seguire Cristo perché egli ci dà il suo Spirito, e in questo modo, seguendo lui, comprendiamo e sperimentiamo che è possibile amare Dio e il prossimo. È soltanto amando Cristo che si capisce che l’amore di Dio e del prossimo sono un unico comandamento, perché Cristo è contemporaneamente Dio e il prossimo.
Gesù usa qui l’espressione il Padre che vede nel segreto: ritorna tre volte (cfr. Mt 6, 4. 6. 18). Egli vuole insegnarci che il cuore dell’esperienza cristiana è vivere con verità davanti a Dio. Non poggiare la propria vita su ciò che gli uomini pensano di noi. Anzi, Gesù arriva a dire guai quando diranno tutti bene di voi (cfr.Lc 6, 26). Ciò che conta è lo sguardo del Padre che vede nel segreto: Gesù doveva essere veramente assediato, disgustato, amareggiato dal formalismo che vedeva nel suo popolo. Ecco allora l’indicazione delle tre strade di conversione.
Tentiamo di entrare nel loro significato. Vi è una pedagogia profonda nella sequenza stessa con cui san Matteo riporta le parole di Gesù: prima l’elemosina, poi la preghiera, infine il digiuno.
L’elemosina: mentre ristabilisce la giustizia tra gli uomini, ci aiuta a comprendere che tutto appartiene a Dio e ci libera dal peso di un attaccamento smodato ai nostri beni.
Non è un caso che il vangelo parli prima di elemosina e poi di preghiera: la povertà è una condizione della preghiera; senza povertà, senza allentare i vincoli che ci tengono schiavi delle cose, non vi può essere preghiera. Se il nostro cuore è occupato e preoccupato, non c’è spazio per il dialogo con Dio.
In questo dialogo l’uomo scopre ciò di cui ha veramente bisogno. La ragione della preghiera, infatti, non è ricordare a Dio le nostre necessità. Dio sa molto bene ciò di cui abbiamo bisogno, siamo noi che non lo sappiamo e per questo dobbiamo entrare nello sguardo di Dio che ci ha creati e ci ama. Cominciare a pregare vuol dire entrare dentro l’azione di Dio in noi: elevatio mentis in Deum (san Giovanni Damasceno ripreso da san Tommaso d’Aquino, In Psalmos, Prœmium; Pars 24, n. 11; Pars 38, n. 8; Summa theologiæ, II-II, q. 83, aa. 1, 5 e 17; III, q. 21, 1). Solo così possiamo riconoscere i nostri bisogni. Quando pregate, dite: Padre (Lc 11, 2) ci ha detto Gesù. Questa è la ragione profonda della preghiera: imparare la nostra figliolanza.
Questo è anche il significato ultimo del digiuno cristiano che la Chiesa ci propone. Non di solo pane vive l’uomo, ma del suo rapporto con il Padre (cfr. Mt 4,4; Lc 4,4). La Tradizione ha sempre collegato il digiuno con la necessità di dare tempo e spazio alla preghiera. Per questo occorre che il nostro corpo non sia appesantito. State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e preoccupazioni materiali (cfr. Lc 21, 34). Il digiuno non nasce, dunque, da un disprezzo né delle cose, né del corpo. All’opposto, è necessario al bene del corpo ed a un giusto rapporto con se stessi e con Dio. Certamente Gesù nella sua vita ha mostrato l’importanza del sedersi a tavola e mangiare, ne ha fatto un’occasione privilegiata di incontro in cui trasmettere l’esperienza della vita come letizia, come festa; ha fatto del sedersi a tavola una metafora della vita definitiva nel Regno.
Allora perché digiunare? Gesù a chi gli rimproverava che i suoi discepoli non digiunavano rispondeva che non potevano farlo mentre lo Sposo era con loro. Il digiuno cristiano, dunque, come dice molto bene un teologo ortodosso del nostro tempo, Olivier Clément (cfr. Teologia e poesia del corpo, Casale Monferrato, 1997), equivale all’attesa dello sposo: esso «mette l’uomo in condizione di vivere nella propria persona la fame profonda di tutta la creazione che soltanto lo Spirito può saziare» (Ivi p. 66). Evidentemente, come all’elemosina è legata la virtù della povertà e alla preghiera quella dell’obbedienza, al digiuno è intimamente connessa la castità, «unificazione dell’amore, integrazione delle forze caotiche della vita in una relazione personale. Digiuno e castità favoriscono la veglia, la vigile attesa dello sposo» (Ivi p. 73).
Auguro a tutti voi di percorrere con gioia questo cammino affascinante, questa strada verso la gioia affinchè, come Israele al termine dei quaranta anni nel deserto, possiate anche voi entrare nella terra promessa della Pasqua di Cristo.
Amen.