Omelia nella santa Messa della V domenica del Tempo Ordinario (in suffragio di don Giuseppe Dossetti)
- Cattedrale di Reggio Emilia, 10 febbraio 2013
10.02.2013
Cari fratelli e sorelle,
celebro questa santa Messa della V domenica del Tempo Ordinario anche ricordando
la persona di don Giuseppe Dossetti nel Centenario della sua nascita. La fede ci assicura che
esiste una comunione profonda tra coloro che vivono ancora nel tempo e coloro che sono
passati oltre la morte: comunione di fede, di preghiera, di aiuto reciproco. Noi preghiamo
per l’anima di don Giuseppe e lui, secondo la misura del disegno di Dio, intercederà per le
nostre vite sulla terra.
Saluto don Athos Righi, superiore della Piccola Famiglia dell’Annunziata, i fratelli e
le sorelle, don Giuseppe Dossetti jr e mons. Eleuterio Agostini, che al termine della Messa
ricorderà, in un breve intervento, le radici ecclesiali reggiane di Dossetti. Saluto anche le
famiglie della comunità dossettiana e tutti gli amici del nostro caro don Giuseppe.
Se ascoltiamo con attenzione le letture di questa Messa, siamo colpiti innanzitutto
dall’infinita distanza che corre tra Dio e l’uomo, tra la sua santità e la nostra condizione di
peccatori. La reazione del profeta Isaia di fronte alla manifestazione della gloria di Dio –
Ohimè! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure – è la stessa che anche
Simon Pietro ha di fronte alla potenza che viene da Gesù: Si gettò alle ginocchia di Gesù
dicendo: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Pietro – commenta san
Cirillo di Alessandria – trema e ha paura. «Come uomo impuro, non osa ricevere l’unico
che è puro» (Cirillo di Alessandria, Comm. a Luca, Om. 12). Anche nella lettera ai Corinzi è
contenuto lo stesso tema. Afferma, infatti, san Paolo: Io sono il più piccolo tra gli apostoli e
non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
Davanti a Dio l’uomo si scopre per quello che egli è realmente. Impuro, peccatore, indegno.
Ma leggendo con più attenzione le letture che ci propone la liturgia di oggi ci
accorgiamo che quello della indegnità dell’uomo, della distanza tra lui e Dio non è né il solo né il più importante tema. Un serafino, infatti, purifica le labbra del profeta Isaia e gli dice: è
scomparsa la tua colpa. Anche Gesù rassicura Simon Pietro e gli dice: Non temere. E san
Paolo afferma: Cristo morì per i nostri peccati e per grazia di Dio sono quello che sono…
Ecco allora che siamo introdotti nel cuore del cristianesimo: l’uomo è amato da Dio
gratuitamente, senza che abbia fatto nulla per meritare il suo amore. Per quanto si sforzasse,
infatti, egli non avrebbe mai potuto colmare la distanza che lo separa da Dio. Solo lui ha il
potere di renderci degni di stare alla sua presenza, solo lui può fare di noi ciò che noi da soli
non potremmo neppure sperare. Il Signore farà tutto per me, abbiamo ascoltato nel salmo.
Scoprirci abbracciati e amati proprio quando più grande è la coscienza della nostra miseria,
ci permette di entrare nell’esperienza della misericordia, della gratuità di Dio. È l’esperienza
originaria e originale della vita divina che Gesù è venuto a portare sulla terra.
Tutto ciò che sembrava un ostacolo alla nostra realizzazione, diventa strada di compimento.
Una misura nuova entra nella vita. D’ora innanzi sarai pescatore di uomini, dice Gesù a
Pietro. Questi non deve rinnegare il suo passato, non deve dimenticare chi è: un pescatore.
Ma l’incontro con Cristo e l’adesione alla sua vocazione gli fa scoprire con una profondità
nuova la sua identità: Pescatore di uomini.
È interessante notare che nel testo greco non troviamo scritto: sarai pescatore di uomini, ma
– letteralmente – d’ora in poi prenderai uomini vivi, o meglio: prenderai uomini per la vita.
San Luca definisce, così, la missione cristiana come un “portare gli uomini alla vita” (G.
Rossé). Dio ci raccoglie dalla nostra miseria, ci coinvolge nella sua missione e ci fa entrare
nella vita.
Questo è stato, a mio parere, il desiderio che ha animato don Giuseppe Dossetti: cercare Dio
e la sua volontà. La sua infaticabile e poliedrica opera esprime proprio questa continua
ricerca della vita vera. Egli ha sentito forte la voce di Dio che lo chiamava e in ogni campo
del suo operare ha cercato continuamente di rispondere a quella voce, con la radicalità di cui
era capace. Dobbiamo riconoscere in lui un uomo che ha desiderato rispondere con tutta la
sua vita all’invito di Gesù, che ha sentito il fascino irresistibile che esercitava la sua figura.
«Perché tutti quanti sentiamo questa attrattiva? – si chiedeva don Giuseppe in un’omelia
pronunciata un anno e mezzo prima della sua morte – Perchè? Per i suoi miracoli? Per le sue
parole? Certo, ma non soltanto. Perché allora? Perché è lui che sprigiona una potente attrazione sui cuori, al di là e più che i suoi miracoli, al di là e più che la sua dottrina. È lui,
misterioso eppure vicino» (Omelia pro manuscripto, 5 febbraio 1995).
Commentando proprio le tre letture di questa domenica, notava con commozione che siamo
di fronte a tre racconti di vocazione «pieni a un tempo della maestà di Dio e della sua
trascendenza esclusiva e assoluta, ma anche pieni della sua immanente presenza tra gli
uomini». Racconti che iniziano con «la consapevolezza della nostra miseria e del nostro
peccato» per farci «poi accedere alla pienezza della grazia e della gioia che solo ci
trasforma».
Seguiamo anche noi questo itinerario che la liturgia ci propone. L’invito che Gesù
rivolge a Pietro è risuonato questa sera anche per tutti noi: Duc in altum! Prendiamo il largo
e sulla sua parola – riponendo cioè la nostra fiducia nella sua fedeltà – gettiamo le nostre
reti.
Amen.
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