I figli: dono e responsabilità
Discorso alla Città nella Solennità di san Prospero
Cari Amici, cari Fratelli e Sorelle,
illustri Autorità,
papa Francesco, con il Sinodo straordinario dei Vescovi che si è da poco concluso,
ha posto all’attenzione della Chiesa e del mondo la realtà della famiglia. Egli ritiene,
come tutti noi, che la famiglia sia il cuore della Chiesa e della società. È nella famiglia,
infatti, che si imparano e si vivono le dimensioni fondamentali della vita. Si impara che
l’amore ci precede, entra a trasformare la nostra esistenza creando dei legami che
diventano fondamentali. Nella famiglia si impara l’apertura agli altri, alla nuova vita dei
figli, si impara l’importanza dell’educazione, il rispetto delle altre persone, soprattutto
attraverso la scoperta che i figli non ci appartengono e che, in definitiva, noi non
apparteniamo a noi stessi.
In occasione della festa di san Prospero, nostro patrono, intendo dunque parlare,
quest’anno, della famiglia, affrontando di essa un aspetto particolare: i figli, come dono e
responsabilità.
Il discorso del Vescovo in occasione della festa di san Prospero vuole parlare a
tutta la Città, non per imporre una visione ideologica della vita, ma per proporre alcune
osservazioni ed esperienze che possono aiutare a leggere ciò che di profondamente
umano vi è nella nostra esistenza e anche ciò che va recuperato e riscoperto. Parlare della
famiglia e sostenere la realtà familiare non vuol dire, da parte mia, difendere un passato,
semplicemente una tradizione, qualcosa di arcaico che si vuole salvare a tutti i costi.
Sostenere la famiglia vuol dire, invece, riscoprire un bene che può costituire un grande
punto di costruzione per il nostro futuro.
Tutti quanti siamo chiamati, perciò, a riscoprire la realtà della famiglia, a
riscoprire ciò che in essa vi è di fondamentale per la vita degli uomini e ciò che può
costituire un bagaglio di speranza per la nostra vita presente.
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, ha messo in
luce in modo originale il valore personale dell’amore nella famiglia1
. Accanto al suo
scopo generativo, ha messo in rilievo il bene del rapporto fra le persone, marito e moglie,
genitori e figli, come una caratteristica propria della vita familiare.
In questo mio discorso alla Città, desidero parlare della famiglia come luogo
naturale della vita, come luogo capace di mettere al mondo un nuovo essere umano e di
assicurare ad esso una stabilità di accoglienza, che solo la famiglia può dare. Sono
consapevole di tutte le fragilità che sono presenti nella realtà familiare. Essa ha però
dentro di sé, proprio per il patto di stabilità che la costituisce, la grande promessa di
assicurare al figlio un luogo che lo aiuti a crescere adeguatamente.
Parlo di tutto ciò nella consapevolezza che l’Italia è uno dei Paesi più colpiti dal
fenomeno della denatalità. In meno di dieci anni, dagli anni Settanta agli anni Ottanta,
siamo scesi da 900mila nascite a 300mila, per poi attestarci intorno a 550mila unità.
Il progressivo cambiamento dei modelli di fecondità della popolazione italiana ha
portato il livello di ricambio generazionale sotto la soglia dei due figli per donna da più di
trent’anni e ciò, unitamente al progressivo invecchiamento della popolazione, ha condotto
alle conseguenze drammatiche che oggi affrontiamo. Se verranno confermati i parametri
di questi anni avremo una popolazione di ultra sessantacinquenni, i nonni, che se adesso
supera di mezzo milione quella dei nipoti, nel 2030 potrebbe superarla di 6 milioni.
Ci sono poi le ragioni economiche e sociali di questa denatalità, che sono, tra
l’altro, il costo dei figli, la difficile conciliazione soprattutto tra lavoro e impegni
familiari, il costo delle abitazioni e la disoccupazione giovanile.
La famiglia, luogo della generazione
1 Cfr. Gaudium et Spes, 47-52; in particolare n. 49: «Proprio perché atto eminentemente umano, essendo
diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell’amore abbraccia il bene di
tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e
della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale».
Vorrei riflettere con voi, allora, su che cosa significa generare dei figli, un bene
prezioso che è diventato sempre più raro nel nostro Paese.
Mentre nel mondo animale esiste la riproduzione, cioè la produzione di nuovi
esseri per la salvaguardia della specie, nel mondo degli uomini si parla piuttosto di
generazione o di procreazione.
La parola generare contiene il riferimento a un’origine, génos. La stessa parola ci
collega con il genere maschile e femminile e con la genealogia, cioè con un filo che
unisce generati e generandi.
Il generare ha quindi a che fare con la differenza originaria, con l’uomo creato
come maschio e come femmina. Nello stesso tempo nell’umano il generare non è solo
un’azione in avanti — pro-creare — ma ci fa anche guardare all’indietro, al fatto che i
generanti, i genitori, sono essi stessi generati, essi stessi dei figli.
Noi oggi, figli del nostro tempo, viviamo in un presente dilatato, ci concepiamo
spesso come se fossimo noi l’inizio assoluto della storia e dimentichiamo la inscindibilità
del generare e dell’essere generati. Ogni figlio ha un nome proprio, ma ha anche un
cognome, vale a dire fa parte di una storia familiare, ha una genealogia, porta su di sé i
geni di molte generazioni, sia da parte della madre che da parte del padre, e ha un
rapporto diretto con i nonni che spesso se ne prendono cura, soprattutto nel nostro Paese
nel quale i nonni rappresentano una grande risorsa per la famiglia.
L’esperienza positiva e bella delle famiglie con bambini adottati o in affido, ci
aiuta a non assolutizzare tutto ciò, ma le particolari fatiche e difficoltà che deve
attraversare la famiglia adottiva, anziché contraddire quanto finora affermato, ne mettono
in luce l’importanza.
Quando abbiamo detto che solo la famiglia genera, abbiamo voluto dire che in
essa l’uomo e la donna si uniscono mettendo in comune dei patrimoni genetici e
simbolici che vengono da lontano e che danno origine a un nuovo essere umano. Nel far
questo capiscono che la vita che hanno donata è essa stessa un dono che hanno ricevuto.
La novità che introduce nel mondo il nuovo nato è una novità assoluta, non una
trasformazione di ciò che già esiste. Generare persone, dunque, è una novità universale
che esiste in tutti i tempi e in tutti i luoghi della terra. Come ha scritto Hannah Arendt, «in
ogni nascita un nuovo inizio appare all’interno del mondo, un mondo nuovo è
virtualmente giunto all’esistenza»2
. Questo mondo nuovo è la persona.
Dire persona non è la stessa cosa che dire individuo. Noi non siamo degli esseri
solitari, ma degli esseri in relazione. Come ha scritto papa Francesco nella Lumen Fidei,
«la persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa
più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di
sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i
nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui
interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella
memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a
una memoria più grande»3
.
Il figlio: dono o diritto?
Oggi c’è poca consapevolezza della novità e del bene insito nella nuova vita che
viene alla luce, lo sentiamo come un diritto più che come un dono. Un diritto degli adulti,
della coppia e, a volte, addirittura del singolo, che non vuole privarsi di questa
significativa esperienza. La novità della nascita, la novità della presenza di un nuovo
essere umano — che viene sì dalle nostre viscere, ma è fin da subito altro da noi, è subito
persona con una sua dignità — cede il passo di fronte al “bisogno” realizzativo
dell’adulto. Il figlio tende a diventare il prolungamento del genitore che facilmente si
rispecchia in lui e affida a lui il senso della sua vita. Diventa la sua “pre-occupazione”. La
maggiore sensibilità che abbiamo oggi nei confronti dei bambini — che è sicuramente un
fatto positivo — si traduce troppo spesso in forme di possesso sottile che impediscono al
padre e alla madre di svolgere il loro compito educativo. Tutto ciò costituisce un’ipoteca
per uno sviluppo libero del bambino.
2 H. ARENDT, La nature du totalitarisme, Payot, Paris 1990, 342.
3 FRANCESCO, Lumen Fidei 38.
Questo aggrapparsi degli adulti ai pochi bambini che mettono al mondo è anche il
segno della fragilità della coppia che cerca la sua consistenza prevalentemente nell’intesa
emotiva e poco nella responsabilità nei confronti del partner e dei figli. La famiglia ha
perso così il suo ancoraggio nella coppia stabile. Oggi poi, con la messa in discussione
della differenza sessuale come prerequisito della unione coniugale, la famiglia rischia non
solo di perdere qualche pezzo, ma di perdere la sua stessa identità.
Essa infatti si fonda sull’unione stabile tra un uomo e una donna che mettono in
comune i loro corpi, i loro affetti, i significati delle loro vite che hanno ereditato dalle
loro famiglie e li trasformano, secondo la loro sensibilità, coinvolgendosi in un progetto
generativo.
Ripartire dalla coscienza di essere figli
Come possiamo allora riprendere questo aspetto elementare della famiglia (cioè il
figlio come dono) senza smarrirci nella falsa strada del diritto degli adulti? Dobbiamo
ripartire dalla condizione di figli, da questo vincolo di dipendenza che è una delle radici
più profonde della condizione umana.
Tutti noi siamo figli, tutti i bambini sono figli. Il figlio rimanda, esige i suoi
genitori e la sua genealogia. Questo è il suo diritto fondamentale: che venga riconosciuto
come figlio, che venga riconosciuto il suo luogo generativo, che gli sia garantita una vita
famigliare, come sta scritto nella Convenzione sui diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite
del 1989.
Il figlio più difficilmente costruirà la propria identità quando non può vivere,
attraverso la sua condizione di figlio, in stretta relazione con chi l’ha generato. Il diritto
del bambino-figlio ad avere una famiglia è un diritto, dunque, di identità. Tale diritto,
purtroppo, a volte è “tradito” dalla pretesa dei genitori di avere “un figlio a tutti i costi”,
ed è ricercato anche attraverso strade, come la fecondazione eterologa o l’utero in affitto,
che rendono problematico per il figlio conoscere le sue origini. Nascere con un vuoto di
origine alle spalle, non sapendo chi è il padre o la madre o sapendo che il padre ha il
volto anonimo di chi ha dato il seme e la madre l’utero, è una verità drammatica per il
figlio4
. I vuoti relativamente alle origini si traducono in lacune gravi dell’identità perché
rendono impossibile la narrazione della propria storia personale.
Ma anche gli adulti che si mettono su questa pericolosa china fatta di diritto,
possesso e controllo del figlio perdono un aspetto fondamentale dell’esperienza: il fatto
che il figlio è un dono, un inatteso, una sorpresa. È la vita stessa dei figli, nei suoi
caratteri di novità e imprevedibilità, che smentisce l’illusione del controllo e che richiama
i genitori ad un atteggiamento di servizio umile e gratuito nei confronti della vita. Come
dice san Giovanni Paolo II nella Lettera alle Famiglie: «Il bambino fa di sé un dono ai
fratelli, alle sorelle, ai genitori, all’intera famiglia. La sua vita diventa dono per gli stessi
donatori della vita, i quali non potranno non sentire la presenza del figlio, la sua
partecipazione alla loro esistenza, il suo apporto al bene comune loro e della comunità
familiare»5
.
Il figlio come “compito”
Il dono del figlio è contemporaneamente un compito per i genitori. Si apre qui il
grande tema dell’educazione. Il figlio deve essere condotto responsabilmente e
amorevolmente lungo l’itinerario che dall’infanzia porta alle soglie della maturità.
L’educazione è il proseguimento della generazione. Il compito educativo della
famiglia deve accompagnare il figlio a incontrare le cose e l’intera esistenza. Dice Papa
4 Ho già accennato a questa drammatica realtà nella mia nota sul Gender citando, tra l’altro, le ricerche di
E. Scabini e S. Agacinski: «vuoto di origine: […] l’itinerario a ritroso che l’umanità oggi rischia di
percorrere trascina al ribasso la persona dal riconoscimento al misconoscimento, all’indifferenza,
all’incuria»: E. SCABINI, La crisi dei fondamentali dell’umano. Riscoprire l’attrattiva dei fondamentali, in
«Tempi», 17 maro 2014.
«Non ci si è per nulla preoccupati degli effetti che [l’impossibilità di risalire ai genitori biologici]
potrebbe produrre nei figli stessi. […] Adesso li conosciamo meglio, poiché molti di questi figli rifiutano,
più tardi, di essere prodotti fabbricati con l’aiuto di provette congelate e vorrebbero sapere a quale uomo o
a quale donna, in altre parole a quali persone, debbano la vita, per potersi iscrivere in una storia umana.
[…] Il problema dei bambini a venire, cioè delle future generazioni, è che nessuno li rappresenta sulla
scena politica democratica: non possono manifestare, né essere ricevuti, né essere ascoltati. Non
costituiscono alcuna forza. Il legislatore deve però preoccuparsi delle condizioni della loro venuta»: S.
AGACINSKI, La metamorfosi della differenza sessuale, in Vita e Pensiero, n. 2, 2013. 5 SAN GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie 11.
Benedetto XVI: «Educare — dal latino educere — significa condurre fuori da se stessi
per introdurre alla realtà, verso una pienezza che fa crescere la persona»6
, perché realizzi
qualche cosa di bello e di buono, perché realizzi la propria vocazione.
Occorrerà mettere in conto anche gli insuccessi e i sacrifici. Il sacrificio è una
cosa di cui noi post-moderni facciamo fatica a comprendere il valore. Eppure è molto
faticoso educare ed è anche molto faticoso per i genitori di oggi chiedere rinunce, porre
limiti alle richieste dei figli: temono di perdere il loro affetto. Le insicurezze e le fragilità
dei genitori impediscono loro di stabilire un rapporto libero con i figli. Rendono più
debole e ambigua la loro autorevolezza. Sono ricattati dal loro bisogno di ricevere affetto
e riconoscimento da parte dei figli.
È giusto che i figli occupino un posto importante nella vita. Sono un bene
insostituibile, ma non possono essere il senso della vita. Non sono fatti per riempire il
vuoto delle nostre esistenze, per consolarci delle nostre ferite, ma perché insieme,
attingendo al comune Mistero del dono della vita, realizziamo la nostra vocazione. È
particolarmente luminosa a questo proposito l’esperienza di Chiara Corbella ed Enrico
Petrillo che hanno accolto i loro bambini “malati” come un dono che Dio faceva loro,
certi che quei bambini avevano una missione misteriosa da svolgere e loro, come
genitori, erano chiamati ad accompagnarli per il tempo che Dio aveva stabilito.
Accompagnarli nella loro vocazione per riconsegnarli a Lui7
.
Oggi i genitori sono in difficoltà nel condurre i figli a realizzare la loro vocazione,
sono incerti sui criteri da adottare nelle difficili e complicate scelte dell’esistenza, non
sanno che cosa ultimamente desiderare per sé e di conseguenza per i figli. Per questo
l’attaccamento dei genitori è più di tipo narcisistico che progettuale. I figli non sono visti
come nuova generazione che si affaccia alla vita, ma piuttosto come coloro che
riempiono il vuoto esistenziale del genitore. Per questo si tende a trattenerli in casa.
6 BENEDETTO XVI, Messaggio per la XLV Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2012, 2. Parlando del
compito educativo della scuola papa Francesco utilizza espressioni simili: «Amo la scuola perché è
sinonimo di apertura alla realtà. Almeno così dovrebbe essere!» (FRANCESCO, Discorso al mondo della
scuola italiana, 10 maggio 2014). 7 Cfr. S. TROISI – C. PACCINI, Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo,
Porziuncola, 2013.
Invece una genuina posizione educativa fa sì che il genitore, attraverso un rapporto
affidabile, sia un testimone che la vita ha un senso e accompagni il figlio a cercarlo e a
trovarlo. E lui stesso, in questo viaggio, sa riproporsi gli eterni “perché”, sa rilanciare la
speranza. «È compito di coloro che si sono assunti la responsabilità di genitori —
scriveva significativamente il mio predecessore, mons. Adriano Caprioli, nella sua ultima
Lettera pastorale — di rendere ragione al figlio della promessa che essi hanno fatto
mettendolo al mondo: la promessa per cui “c’è una speranza nella tua vita”»8
.
Da questo punto di vista, è altamente educativo per un figlio vedere una madre e
un padre che pregano assieme, che hanno un punto di riferimento più grande di loro, a cui
chiedono forza e sapienza. I nostri figli non hanno bisogno di genitori perfetti, che non
esistono, ma di adulti che come loro e prima di loro siano affamati di verità e bellezza, di
significato e di felicità. Genitori che, pur con tanti limiti e in mezzo a tanti errori,
desiderano dare la vita per qualcosa di grande.
In questo senso, l’esperienza della paternità e della maternità è un grande dono
innanzitutto per i genitori stessi, anche sul piano spirituale. Proprio perché è un compito
che quasi supera le loro risorse, può diventare la strada per trarre fuori da se stessi la parte
migliore: pensiamo alla capacità di donarsi, di uscire da sé, di sperare, di avere
pazienza…; è una nuova vita non solo per il bambino, ma anche per i genitori stessi.
Diventare genitori è un’esperienza che li “costringerà” ad affidarsi, a mettersi in mani più
grandi.
La grandezza, la complessità e la fragilità della vita familiare possono diventare
l’occasione per scoprirsi sempre più figli, per riconoscersi piccoli, per imparare ad
abbandonarsi, a chiedere e a sperimentare la provvidenza del Padre. Diventare papà e
mamme significa assomigliare di più a Dio, che ama come padre e madre, ma significa
anche diventare più figli: figli insieme come coppia e figli insieme ai propri figli.
La missione della famiglia: umanizzare l’umano
8 ADRIANO CAPRIOLI, Vigilate: ecco sto alla porta e busso. Lettera Pastorale per il biennio 2010-2012
[2010], 23.
L’educazione aiuta la vita dei figli a fiorire, affinché, a loro volta, producano
nuovi frutti vitali. In questo modo la famiglia “umanizza l’umano”. Che cosa significa?
Per diventare pienamente umani occorre imparare innanzitutto cosa voglia dire
voler bene, occorre fare esperienza di legami affidabili, del gusto e della fatica di lavorare
per un progetto di vita buona. Tutto questo una famiglia lo può dare indipendentemente
dal grado di istruzione. Sono spesso le famiglie più semplici, più povere a testimoniare
questi “legami affidabili”. Talvolta quanto più si è studiato, tanto più si è portati a pensare
che educare sia dare competenze. Lo scopo della famiglia non è dare competenze, ma
rendere umani, cioè aiutare l’altro a diventare persona compiuta: la famiglia insegna la
fiducia, la speranza, la capacità di perdono, insegna a vedere con realismo anche quella
quota di male che segna inesorabilmente la vita di ognuno.
L’uomo può amare se prima ha riconosciuto un amore gratuito su di sé. La
famiglia è il luogo dove il soggetto umano fa l’esperienza affettiva e morale elementare,
basilare, sperimenta di essere voluto e amato e impara, così, a prendersi cura dell’altro.
Essere figli è cronologicamente la prima e decisiva esperienza che ciascuno di noi
ha fatto in seno alla propria famiglia, ed è anche quell’esperienza dalla quale dipenderà in
buona parte la capacità di vivere da fratelli, di essere sposi, padri e madri.
Come nella vita relazionale, anche per quanto riguarda la vita spirituale i genitori
sono i primi mediatori e testimoni della fiducia, della speranza e dell’amore che Dio ha
per noi, creando così nella famiglia un contesto in cui la fede può più facilmente nascere
e fiorire.
I genitori educano innanzitutto attraverso la cura del loro legame e rimanendo
aperti alla vita. Infatti, l’arrivo di un figlio o di un fratello in una famiglia è il segno che
c’è una “sorgente” ancora viva, e non solo biologicamente; significa che c’è stato un atto
d’amore. Proprio il prolungamento di quest’atto d’amore è il primo regalo che i genitori
sono chiamati a dare ai figli e che essi cercano: tenere vivo nella coppia il volersi bene. I
bambini e i ragazzi non hanno solo bisogno di essere amati, ma hanno bisogno di vedere
che è possibile e vale la pena amarsi. Da questo nascerà la loro fiducia e la capacità di
creare dei legami stabili.
Una comunione educativa
Tutto quanto ho detto finora può far sorgere in noi la domanda: ma è possibile
vivere questo compito così complesso? Sì, perché i genitori non sono soli, non sono
chiamati ad essere autosufficienti. Anzi, proprio la gravità del loro compito fa avvertire
loro, in modo quasi naturale, il bisogno di una comunione con altre famiglie, con cui
condividere gioie, preoccupazioni, scelte educative. Il cuore della vocazione dei genitori
è proprio questa apertura che sono chiamati a vivere di fronte alla propria inadeguatezza.
Dio sempre assegna un compito all’uomo perché questi, attraverso la missione che gli è
affidata, abbia a comprendere che da solo non può far nulla (cfr. Gv 15,5). Il compito che
Dio affida ad ognuno è sempre anche un espediente per farci entrare nella comunione, per
farci capire che siamo fatti per la comunione. Una famiglia che si concepisse da sola, che
si ripiegasse su sé stessa, contraddirebbe la sua essenza più profonda.
Oltre che sull’amicizia con altre famiglie, sul sostegno materiale e spirituale di
tante persone e sulla comunità cristiana, i genitori possono contare su molte istituzioni
che collaborano alla loro opera educativa. Spetta ad essi la responsabilità di scegliere i
luoghi più adeguati per la formazione dei loro figli, ma devono poter contare su altre
istituzioni e su altri adulti che, nel rispetto dei diversi ruoli, si assumano anch’essi il loro
compito educativo. Si comprende, da questo punto di vista, che la possibilità di
un’effettiva scelta della scuola, uno tra i più importanti di questi luoghi, è una questione
decisiva. Occorrono però anche politiche familiari serie, che sostengano le famiglie
valorizzando i soggetti sociali che possano rigenerare quella rete comunitaria che rende
più facile l’impresa educativa. Come ha ricordato papa Francesco con un proverbio
africano, parlando al mondo della scuola italiana, «c’è bisogno di un villaggio per far
crescere un bambino»9
.
+ Massimo Camisasca, Vescovo
Reggio Emilia – Basilica di san Prospero, 24 novembre 2014