Omelia nella Messa di apertura dell’Anno Accademico a Parma
- Parma
20.11.2013
Cari fratelli e sorelle,
magnifico Rettore,
professori, studenti
e voi tutti che, a vario titolo, contribuite a al prezioso lavoro di questa Università, sono molto contento di essere qui con voi per l’apertura del nuovo Anno Accademico.
Abbiamo appena ascoltato nel Vangelo ciò che potremmo definire il fondamento stesso di un’istituzione come l’Università: In principio era il Logos. In che senso questa affermazione di san Giovanni, ispirata e geniale nello stesso tempo, costituisce il fondamento dell’Università? Se quest’ultima è il luogo della ricerca e dello studio, della scoperta e della trasmissione della conoscenza, il suo presupposto fondamentale non può che essere l’intellegibilità del reale. Ed è proprio questa la prima, letterale, interpretazione dell’affermazione giovannea. Il principio della realtà non è il caos, disordinato e inaccessibile, ma il logos, la ragione, cioè un ordine che si rende visibile e conoscibile dall’intelletto umano. E per questo anche comunicabile. Tutto ciò che esiste è stato fatto – continua san Giovanni – per mezzo di questo Logos. Tutto quindi è dato all’uomo come possibilità di conoscenza, di penetrazione del senso profondo di ogni cosa e anche, in modo sempre rinnovato e perfettibile, delle leggi fisiche, matematiche, morali che guidano il mondo.
Tutto ciò ha qualcosa da dire non solo sulla possibilità stessa di una Università, ma anche su quale debba essere il suo scopo e il suo metodo.
Per rispondere a queste domande potremmo seguire molte strade. Potremmo per esempio riandare alle origini storiche dell’Università nel Medioevo e scorgere in esse quella luce sorgiva in grado di illuminare le ragioni profonde anche dell’Università attuale. Potremmo pure partire dai problemi che incontriamo oggi e chiederci se e come l’istituzione Università può rispondere alle sfide del mondo contemporaneo.
Preferisco però, in questa sede, farmi accompagnare da una delle riflessioni più acute che nell’età moderna sia stata fatta sul senso dell’Università e che comprende al suo interno anche le altre strade che ho accennato. Si tratta dello studio e dell’esperienza di John Henry Newman, condensate soprattutto nel suo scritto L’idea di Università. Penso che le sue riflessioni vadano ben al di là del travagliato contesto anglosassone di metà Ottocento e parlino “laicamente” anche al mondo accademico dell’Europa di oggi.
L’idea fondamentale da cui parte la riflessione di Newman l’Università come luogo del sapere universale, in cui ogni conoscenza deve trovare il suo spazio e in cui la trasmissione del sapere non sia appena una sterile comunicazione di nozioni. Questa apertura totale al sapere, apertura che nasce innanzitutto dalla passione per la realtà, esclude, per sua stessa natura, ogni utilitarismo. Non che dal sapere non derivi un’utilità pratica, anche immediata. Pensiamo per esempio al bene che a tutta l’umanità è derivato dal progresso della medicina, della biologia, della fisica… Ma questa utilità, perché sia veramente tale, può essere frutto solo di un’apertura “disinteressata” di fronte alla realtà. In cui i singoli saperi non sono “separati”, isolati e quindi assolutizzati. Se non si riconosce una tensione all’unità di tutto il sapere, all’unità delle discipline, non è possibile una vera crescita del sapere, un’educazione adeguata delle persone. Si rischia di piegare le leggi della natura o le leggi morali ad interessi parziali che, come la storia dimostra, sono ultimamente contro l’uomo.
È chiaro che, descrivendo l’unità del sapere, sto parlando in prima istanza di una posizione del cuore. L’apertura alla totalità infatti non può avvenire se non attraverso l’approccio a dei particolari. «Che cosa può insegnare [l’Università] – scrive Newman – se non qualche scienza particolare? Insegna la conoscenza, insegnando i settori della conoscenza». Proprio per questo ogni disciplina corre il rischio di divenire «dispotica».
È solo la luce del tutto, cioè della totalità del sapere, che riesce a purificare e a prevenire da questa tentazione. Solo la luce calda della verità, di cui ogni sapere umano è riflesso, può aiutare il biologo, il letterato, il giurista, il medico,… a comprendere il suo posto specifico e quello della sua scienza all’interno dell’unico edificio della conoscenza.
Per Newman la verità riconosciuta è come un’alta vetta dalla quale ognuno può comprendere la grandezza del proprio sapere e, nello stesso tempo, la sua relatività. Proprio per questo l’ipotesi di una verità intera nella ricerca del particolare, nello studio e nell’educazione non è propria soltanto di una visione “religiosa”. È un’ipotesi laica, che trova il suo fondamento nella realtà e nella stessa ragione umana. Newman parla anche in altri termini di questa ermeneutica del sapere, la descrive come una capacità di sintesi, che è la caratteristica più importante dell’uomo colto e sapiente. Uno sguardo capace di leggere il particolare alla luce della totalità. Tale capacità non può essere appresa a tavolino. La verità rivela se stessa solo in un rapporto vivo tra maestro e discepolo.
Questa verità si esprime soprattutto nel metodo dell’insegnamento. Cioè in quella che Newman definisce «influenza personale» dell’insegnamento. Egli si riferisce in primo luogo al valore affettivo della verità. A quella circolarità di sapere e amore che ha fatto la grandezza della cultura occidentale. Si conosce veramente solo ciò che si ama. E non si può amare se non si è introdotti a questo amore dalla passione e dalla testimonianza di un maestro. «Nel mondo la verità è stata sostenuta non come un sistema, non da libri, né da argomenti, né dal potere temporale, ma dall’influenza personale di uomini… che ne sono nello stesso tempo i maestri e i modelli». La verità si comunica in un rapporto vissuto tra maestro e discepolo, tra uomini che ricercano assieme la verità di ciò che studiano. Già Platone, nella famosa Lettera VII, afferma che la vera sapienza è come una scintilla che improvvisamente si accende dentro una comunanza di vita.
Un sistema accademico senza questa vita, senza l’influenza personale dei maestri sui discepoli – conclude Newman, ma anche, aggiungo io, senza influenza dei discepoli sui maestri – «è un inverno artico; creerà un’Università imprigionata nel ghiaccio, pietrificata, rigida». Cari amici vi auguro di vivere la grande avventura della conoscenza lasciandovi riscaldare dalla passione per la verità, implicandovi personalmente in questa ricerca.
In questo modo la vostra Università potrà diventare un faro in grado di illuminare non solo la città di Parma, ma l’intera Italia e l’Europa. Soprattutto diventerà un luogo umano, in cui sarà bello abitare, studiare, ricercare.
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