Il testo dell’omelia pronunciata dal vescovo Camisasca nella sollenità di san Giuseppe (Messa della vigilia, dopo i Primi Vespri) – Messa in suffragio delle vittime della pandemia. Cattedrale di Reggio Emilia, 18 marzo 2021
Cari fratelli e sorelle,
la celebrazione di oggi è carica di molti significati. Innanzitutto è la preghiera di Cristo al Padre che offre tutto se stesso per la cancellazione del nostro male e per la nostra eterna felicità. In questa preghiera offriamo questa sera in modo speciale la vita di tutti coloro che durante l’anno trascorso sono morti a causa della pandemia. In particolare, vogliamo ricordare con affetto coloro che sono morti nella solitudine e i loro cari che non hanno potuto accompagnarli in questo estremo passaggio. Ci conforta sapere che essi erano nelle mani di Dio che guardava con particolare benevolenza al loro sacrificio.
In forza del sacrificio di Cristo, nessuna morte è mai senza peso, senza valore, senza significato. Anche se essa non perde ai nostri occhi la sua “irrazionalità”, anzi la sua ragione di scandalo di fronte alla promessa della vita che custodiamo nel cuore, ci è almeno di conforto sapere che la morte non è l’ultima parola. Essa è un passaggio doloroso, che ci accomuna a tutti i nostri fratelli e sorelle. Nello stesso tempo inaugura nella luce della vita nuova e definitiva la comunione piena con Dio promessa a tutti coloro che accolgono in modo esplicito, o almeno nel desiderio, l’invito di suo Figlio: chi segue me avrà la vita eterna (cfr. Gv 5 e 6).
Durante questi primi vespri della solennità di san Giuseppe, la nostra attenzione si rivolge alla figura del grande patriarca della Chiesa, a cui papa Francesco ci ha invitati a guardare durante questo anno, anniversario della proclamazione del padre putativo di Gesù a Patrono della Chiesa Universale.
La paternità di Giuseppe ci rimanda alla paternità di Dio. Ambedue queste realtà ci ricordano che non solo non possiamo vivere senza l’esperienza di un padre, ma che in essa si racchiude – come Gesù ci ha rivelato – l’essenza stessa di colui che chiamiamo con il nome di Dio.
Paternità vuol dire innanzitutto apertura alla vita: Dio Padre è colui che conosciamo come il Creatore. Egli crea perché desidera altre creature accanto a sè, tra cui, in modo speciale, l’essere umano, partner chiamato all’alleanza, alla comunione, alla vita comune con Dio stesso.
Dio Padre non è solo il Creatore, è anche l’educatore, colui che ci accompagna, che ci introduce alla vita, che porta ciascuno di noi, suoi figli, verso la maturità, riconoscendo i nostri doni senza sostituirsi a noi, ma anzi aiutandoci ad una libertà matura e consapevole.
Dio Padre è anche colui che perdona e accoglie, che sta sempre sulla porta ad aspettare, anzi prende l’iniziativa per risollevare chi è caduto, per perdonare chi ha sbagliato, per aiutare la pace e la serenità di chi non riesce a fare i conti con il proprio passato.
Dio Padre è anche colui che sa correggere con pazienza, discrezione e, nello stesso tempo, con amore alla verità. Talvolta le correzioni che Dio opera sono per noi di difficile comprensione. Egli si serve dei fatti stessi della storia, personale o mondiale, per richiamare il suo popolo e tutti gli uomini ad una visione più saggia e più vera della propria vita. Un padre corregge perché ama e, attraverso la correzione, converte a sé i cuori di coloro che si aprono a lui (cfr. Eb 12,5-11).
Il Papa, nella sua lettera apostolica Patris corde, scrive: «Il realismo cristiano … non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (Rom 8,28). Sant’Agostino aggiunge: “Anche quello che viene chiamato male”. In questa prospettiva totale, la fede dà significato a ogni evento lieto o triste» (Francesco, Patris corde, n. 4).
Cari fratelli e sorelle,
accogliamo l’invito di papa Francesco. Puntiamo la nostra attenzione sulla figura di san Giuseppe. Rileggiamo i testi Patris corde e Redemptoris custos (di san Giovanni Paolo II). Preghiamolo ogni giorno, affidando a lui tutta la Chiesa e soprattutto le nostre famiglie.
San Giuseppe, guida della famiglia di Nazareth, ci insegna a riscoprire i rapporti famigliari come luogo centrale della vita, ma ci insegna anche a perdonare e a ricominciare laddove questi rapporti sono malati o irrimediabilmente perduti.
Affidiamo a san Giuseppe anche i lavoratori, soprattutto coloro che cercano un lavoro. Affidiamo a lui tutta la Chiesa nel suo bisogno continuo di rinnovamento e di santità per essere immagine viva e luminosa della passione di Cristo per gli uomini.
Amen.
+ Massimo Camisasca