Concattedrale di Guastalla, 3 ottobre 2020
Cari fratelli e sorelle,
la solennità di san Francesco mi porta qui da voi all’inizio di ogni nuovo anno pastorale. È un’occasione felice, non solo per festeggiare assieme il nostro patrono, ma anche per farci ispirare dalla sua figura e per affidare a lui tutti i desideri e i progetti della nostra diocesi per l’anno che inizia.
Guardare a Francesco ci aiuta a discernere ciò che è essenziale da ciò che è secondario o addirittura dannoso. Ci aiuta ad andare alle sorgenti della vita della Chiesa e della sua missione. In realtà è molto difficile penetrare la figura del santo di Assisi; si è parlato e scritto tantissimo di lui: il cinema, la letteratura, l’arte hanno trovato in san Francesco sempre nuove ispirazioni. Ogni anno nascono nuovi gruppi, associazioni o comunità che a lui si rifanno. Una teoria infinita di storici e studiosi si sono cimentati nel leggere la sua figura. Eppure tutti questi tentativi non sono mai riusciti ad esaurire la ricchezza che da Francesco promana. Probabilmente nessuno ci riuscirà mai: quanto più è profonda la vita di un uomo, tanto più essa è nascosta, avvolta nel silenzio e nel mistero, essenzialmente inesprimibile, eppure sorprendentemente feconda.
Le parole di san Bonaventura – che Liliana Cavani, alla fine del suo secondo film su san Francesco, mette sulle labbra di Chiara – sono a mio parere quelle che più ci avvicinano al mistero di quest’uomo: «l’amore ha reso il suo corpo identico a quello dell’amato»[1]. In questa espressione – che evidentemente fa riferimento al dono delle stimmate – troviamo tutta la concretezza, la carnalità e la radicalità che hanno caratterizzato la vita di Francesco, assieme all’ineffabile profondità spirituale in cui questo “amore totalitario” fonde assieme anima e corpo.
Francesco rimarrebbe un mistero impenetrabile e addirittura un ammasso di contraddizioni se non considerassimo l’esperienza, semplice e mistica nello stesso tempo, del suo rapporto con Cristo. Le immagini con cui solitamente viene rappresentato il suo amore per il prossimo, per la Chiesa e per la creazione, le sue biografie e i suoi stessi scritti riescono ad esprimere solo un tenue riflesso e una conseguenza molto esteriore di quell’abisso che era il suo rapporto con Dio. Egli è stato essenzialmente un innamorato. Ogni amore ha dentro si sé il desiderio di diventare tutt’uno con colui che si ama, di superare le barriere che impediscono la comunione totale, la fusione con l’amato. È questa la radice della povertà cristiana, di quell’incontenibile bisogno di spogliarsi di sé che Francesco ha vissuto per tutta la vita. La ricerca appassionata dell’amato, l’identificazione con lui, il desiderio di entrare nel suo cuore, nella sua mente, nelle pieghe del suo corpo – come ci ricorda l’affezione di Francesco per il “sasso spicco” sul monte de La Verna, dove egli, portandosi nelle fenditure della roccia, immaginava di nascondersi nelle piaghe del costato di Gesù – rappresentano al vivo davanti ai nostri occhi le parole con cui il Cantico dei Cantici descrive la fisicità e, assieme, l’ineffabilità dell’amore umano. Un amore in cui le due dimensioni dell’uomo, fatto di terra e spirito, si confondono e si trasfigurano nell’amore divino. O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole (Ct 2,14).
Al di fuori di questa luce non si possono comprendere le “follie” di Francesco, le sue penitenze, il suo amore per la natura, la sua insofferenza per ogni possedimento che potesse appesantire la sua corsa verso l’amato. Mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce: questo è il tesoro per cui vale la pena lasciare ogni cosa. Questa la perla preziosa che rende liberi da tutto e dona pace al cuore. Francesco condensa meravigliosamente tutto ciò nelle parole probabilmente più espressive della sua esperienza, parole profonde e lapidarie: Deus meus et omnia, Dio mio e mio tutto.
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A questa stessa radicalità di identificazione a Cristo ci richiama il motto che mons. Angelo Zambarbieri, di cui oggi celebriamo il 50° anniversario dalla morte, scelse quando fu nominato vescovo di Guastalla: Christi simus, non nostri, apparteniamo a Cristo, non a noi stessi. In realtà si tratta di una citazione di san Colombano, che manifesta un legame con Bobbio, dove il piccolo Angelo trascorre la sua infanzia, e ben esprime il suo animo profondo e umile.
Grazie ad una dispensa di Pio XI, egli fu ordinato presbitero a soli 21 anni, diventando così il sacerdote più giovane d’Italia. Mi è caro, in questa occasione, ricordare il profondo legame del vescovo Zambarbieri con don Orione che è ospite nella sua casa quando lui e i suoi due fratelli sono ancora molto piccoli. Il rapporto con don Orione e il riferimento alla sua spiritualità sono fondamentali per comprendere la figura dell’ultimo vescovo qui residente. Pare che don Orione abbia addirittura profetizzato non solo la vocazione sacerdotale dei tre fratelli, ma anche la nomina episcopale di Angelo. È proprio nell’anniversario della morte del santo, il 12 marzo 1959, che Giovanni XXIII nomina don Angelo Zambarbieri vescovo coadiutore di Guastalla. “Sono un povero prete di campagna, come potrò fare il vescovo?”: sono le parole con cui il neo eletto vescovo pare abbia salutato l’annuncio della nomina.
Con la sua mitezza di cuore e la sua non comune pietà conquista molti cuori durante gli undici anni del suo servizio pastorale in questa Chiesa. Con il suo stile semplice e la sua carità sa farsi interprete del rinnovamento che le sessioni del Concilio Vaticano II – a cui egli prendeva parte – proponevano a tutta la Chiesa.
Una grave malattia stronca improvvisamente, nel 1969, le sue energie giovanili e lo porta alla morte in un breve lasso di tempo. Ma è proprio questo il tempo in cui più emerge la statura umana e spirituale di questo grande pastore: egli offre la sua sofferenza per il papa e per i sacerdoti, per la diocesi e per la Chiesa tutta. La coscienza del valore della sofferenza come strada per costruire la Chiesa è una delle più grandi eredità che mons. Zambarbieri ci ha lasciato già prima che Giovanni Paolo II indicasse questa strada a tutta la Chiesa definendo il policlinico Gemelli il “Vaticano III”. In questa solenne celebrazione, a 50 anni dalla morte di questo mio amato predecessore, desidero porre all’attenzione di tutti la sua eredità spirituale. Colui che costruisce e rinnova la Chiesa è solo Cristo. Noi vi possiamo contribuire con il nostro lavoro, con la letizia del nostro sì quotidiano alla volontà del Padre e soprattutto con l’offerta della nostra sofferenza.
Come san Francesco, anche mons. Zambarbieri, alla fine della sua vita, ha riconosciuto nella croce di Cristo la strada maestra dell’unione con lui, la porta della vita vera e della gioia senza fine. Preghiamo che, anche per l’intercessione del poverello di Assisi, egli possa godere ora dell’abbraccio del Padre e della consolazione della Madre che egli ha così teneramente amato e servito negli anni della sua vita terrena.
Amen
+ Massimo Camisasca
[1] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Legenda maior XIII, 5: FF 1228.