Cattedrale di Reggio Emilia, 31 maggio 2020
Cari fratelli e sorelle,
la realtà dello Spirito Santo è come un immenso oceano. Noi fatichiamo ad entrare in questo oceano e corriamo sempre il rischio di accostarci soltanto all’ultima onda verso la spiaggia. Occorre sostare per comprendere e per entrare nel dono dello Spirito. Proviamo a tracciarne almeno qualche piccolo disegno. Proviamo ad assaporarne qualche modesto assaggio.
Lo Spirito è un principio personale e comunitario. Dal secondo capitolo degli Atti degli Apostoli abbiamo ascoltato la discesa ultima e definitiva dello Spirito (At 2,1-11), la quale, come intuiamo anche dal racconto del Vangelo (Gv 20,19-23), è stata preceduta da tante effusioni dello Spirito. Non solo durante la vita di Gesù, ma anche nell’antica storia di Israele. Fin dal momento della creazione lo Spirito aleggiava sulle acque (cf. Gen 1,2). E poi, successivamente, sempre ogni nuova tappa è stata marcata da un dono particolare dello Spirito, da un’unzione spirituale. Lo Spirito di Dio consacrava e trasformava dall’interno le persone dei giudici, dei re, dei profeti, dei sacerdoti, perché il compito dello Spirito è proprio questo: creare e salvare l’unità del popolo. Tale unità viene realizzata dallo Spirito custodendo e salvando la pluriformità: questo è il suo compito specifico.
Negli Atti degli Apostoli il racconto della Pentecoste è segnato proprio da questo evento: ciascuno sente parlare gli apostoli nella propria lingua. Quel giorno a Gerusalemme si festeggiava la festa di Pentecoste giudaica e in città erano accorsi ebrei provenienti da tutte le nazioni. Essi parlavano lingue diverse perché ormai si erano inculturati nella nazione in cui risiedevano. Ebbene, tutte queste persone sentirono parlare gli apostoli nella propria lingua: non fu un’illusione, si trattava di un dono, un dono fondativo. Si trattava di fondare la Chiesa e dunque Dio diede ad ogni apostolo la capacità di parlare nella lingua propria di ogni popolo. Lo stesso accadrà poi sempre nella storia della Chiesa, attraverso i missionari che impareranno le lingue di tutti i popoli, al fine di annunciare loro il Vangelo.
Il collegio apostolico era unico e, come abbiamo sentito, c’è un solo Spirito, così come c’è un solo Dio e un solo Salvatore. Quindi tutti questi popoli, pur nella loro diversità, sono chiamati a formare un solo popolo nuovo (cf. Ef 4,4), quella Chiesa che viene da Israele e dalle genti, quella Chiesa che nasce attraverso tutte le culture e tutte le lingue e che forma una unità nuova, una nuova “entità etnica sui geniris”[1].
Siamo consapevoli di questo? Intuiamo qual è la vera realtà della Chiesa? Che essa è fatta di noi, di noi uomini, delle nostre diverse culture, sensibilità, vocazioni, aspirazioni e lingue? E che essa tutto raccoglie in unità, purificandolo, trasformandolo, potremmo dire sublimandolo, cioè rendendo eterno tutto ciò che è temporaneo? Per questo lo Spirito Santo viene presentato come fuoco, fuoco purificatore, fuoco che allo stesso tempo riscalda, illumina e purifica. Lo Spirito viene presentato anche come vento che spazza via le nubi e permette di vedere: solleva via la polvere, cioè ciò che è inerme, e permette a ciò che è vivo di riemergere e di rimanere. Lo Spirito è paragonato poi anche all’acqua. Insomma, nella storia della Chiesa tanti sono stati i modi di accostarsi alla realtà dello Spirito, perché lo Spirito è proprio l’infinito di Dio che investe la finitudine dell’uomo e lo trasforma. Potremmo parlare e approfondire la realtà dello Spirito continuamente, infinitamente!
Ma vorrei ora cecrare di entrare più profondamente nell’opera dello Spirito. Egli realizza sulla terra, in questo mondo, una realtà di un altro mondo. Noi il più delle volte restiamo ai margini dell’opera dello Spirito: ci accostiamo a Gesù, ne conosciamo la vita, ne meditiamo le opere e le parole, abbiamo forse anche consuetudine con una comunità a cui apparteniamo, donando anche del nostro tempo, delle nostre energie, forse anche dei nostri soldi… Ma tutto questo può non essere ancora opera dello Spirito, la nascita di qualcosa di veramente e radicalmente nuovo, ma semplicemente il frutto di una generosità buona. Affinché sia qualcosa di nuovo, così come Dio vuole, occorre che lo Spirito sia lasciato entrare dentro di noi perché nasca questo al di là nell’al di qua, questo altro mondo in questo mondo. Occorre che lo Spirito Santo sia lasciato entrare nel nostro cuore. Per lasciarlo entrare dobbiamo sostare, e soprattutto dobbiamo domandarlo.
Ecco un primo suggerimento che dò a me e a tutti voi: intensificare la preghiera allo Spirito Santo. Vieni Spirito Santo: sono queste le parole con le quali possiamo iniziare la nostra giornata e concluderla. “Vieni Spirito Santo, invadi i nostri cuori, riempili della tua luce e della tua grazia; sana tutto ciò che in noi è ferito, rinvigorisci ciò che è debole, scalda ciò che si è raffreddato, soprattutto la freddezza nel nostro amore”[2]. Com’è piccolo il nostro amore per Cristo! È come un bambino che deve divetare grande.
Dobbiamo prestare attenzione al rischio che il dono dello Spirito in noi rimanga infantile, che non crescano la nostra conoscenza e il nostro amore. Per grazia di Dio possiamo entrare ogni giorno in quel mondo nuovo che lo Spirito Santo dischiude e prepara per noi.
Lo Spirito non va solamente invocato, ma anche gustato e goduto. Che cosa ci dà piacere? Questa è una domanda importante per metterci in cammino verso l’accoglienza dello Spirito. Stare con Dio ci dà piacere? La preghiera ci dona pace e piacere? E la carità fraterna? Il soccorso dell’umile e del povero? Oppure tutto questo è soltanto un dovere a volte pesante, che sopportiamo con la speranza di poter entrare infine in Paradiso?
Non è un caso che la liturgia, nei suoi inni soprattutto, ritorni continuamente sul tema del gusto, del sapore. Godere del sapore dello Spirito: quae recta sunt sapere. Non soltanto sapere, ma anche godere: lo Spirito non è soltanto oggetto di conoscenza (sapère), ma anche di piacere (sàpere). Avere il godimento di entrare nello stesso pensiero di Dio, di vedere le cose come le vede lui, di amare le persone e la realtà così come lui ama, di non perdere tempo con ciò che è passeggero, con ciò che ha il sapore della terra – sapore apparentemente dolce, ma infine fallace, con un retrogusto amaro.
Entrare nel mondo dello Spirito signifca entrare in un altro mondo che vive in questo mondo. Questo “altro mondo nel mondo” si chiama Chiesa. Essa diventa davvero l’inizio della realtà definitiva e il luogo dell’incontro con Dio nel momento in cui noi ci accostiamo ad essa non come ad un’organizzazione esteriore, ma come a una persona che ci ama, e cerchiamo di conoscerla e di partecipare alla sua vita con famigliarità, leggerezza e gioia, con tutte le dimensioni del nostro essere. Così possiamo assaporare veramente su questa terra il mondo nuovo, il mondo ricreato, come abbiamo sentito nel Salmo: Mandi il tuo Spirito e ricrei il mondo (cf. Sal 103).
[testo non rivisto dall’autore]
[1] Paolo VI, Udienza generale, 23 luglio 1975.
[2] Cf. Sequenza di Pentecoste.