Cattedrale di Reggio Emilia, 24 maggio 2020
Cari fratelli e sorelle,
la Chiesa ci propone solennità liturgiche così importanti come quella odierna, unicamente perché esse dicono una parola “necessaria” su Dio e sull’uomo, su chi è Dio e su chi siamo noi. E dunque dobbiamo cogliere questa parola “necessaria” anche in questa solennità dell’Ascensione di Gesù. Forse essa è un po’ nascosta, non è così facile da cogliere.
Che cosa dice di Dio l’Ascensione di Gesù? E che cosa dice di noi e a noi? Innanzitutto l’Ascensione di Gesù è strettamente collegata alla sua missione. Come abbiamo sentito nel Vangelo di Matteo, prima di ascendere al Cielo, Gesù dice: andate in tutto il mondo (Mt 16,15; cf. 28,19). Fate cioè ciò che io non ho potuto fare. Egli dà così ai suoi apostoli il compito di essere come “altri Gesù” nella storia e nella vita del mondo. Fate discepoli tutti i popoli, battezzateli e aiutateli ad obbedire a ciò che io ho detto, ad entrare nella scia di vita nuova inaugurata da me (cf. Mt 28,19). Dunque l’Ascensione è il momento in cui nasce la Chiesa, in cui l’opera di Gesù non si interrompe, ma continua attraverso il ministero degli apostoli, dei presbiteri, dei diaconi e di ogni fedele.
Le parole che ha detto Gesù ai suoi apostoli sono rivolte a ciascuno di noi: andate, fate dicepoli tutti i popoli, battezzateli e insegnate loro ad obbedire a ciò che io ho detto (cf. Mt 28,19). Un invito dunque alla missione, un invito alla “Chiesa in uscita”, a non accontentarci di ciò che abbiamo ricevuto, ma a trasmetterlo.
La trasmissione della fede è il compito fondamentale di ogni cristiano: per i suoi famigliari, per i suoi amici, per le persone che incontra nel luogo di studio o di lavoro, per tutti. Sentiamo forte su di noi questa dolce responsabilità, senza della quale non possiamo neppure capire il dono che abbiamo ricevuto e non possiamo perciò neppure godere sulla terra della gioia delle fede, della carità e della speranza.
Gesù, nel momento della sua Ascensione al Cielo, ci lascia. Che cosa resta? Non poteva restare con noi sempre nel mondo? Certamente non poteva restare nel suo corpo fisico: sarebbe stata una contraddizione e oggi avremmo qui fra noi un “vecchietto di duemila anni”. Ma soprattutto sarebbe stata una contraddizione con l’Incarnazione: se egli ha assunto fino in fondo la nostra umanità, ha assunto anche la nostra mortalità. Però rimane la domanda: perché non è rimasto con noi nella forma del suo corpo glorioso, cioè nel modo in cui è appartso ai discepoli per quaranta giorni dopo la Resurrezione? Perché limitarsi a soli quaranta giorni?
Egli, dopo la Resurrezione, è tornato al Padre e poi si è fatto vedere dai suoi discepoli per dare fondamento alla fede e alla Chiesa. Ma il suo posto non era più tra noi. Se fosse rimasto in mezzo a noi con il corpo risorto ci avrebbe abbagliati. Egli voleva che noi lo scegliessimo; non aveva bisogno che noi andassimo dietro a lui per l’imposizione della sua luce.
E allora sorge un’altra domanda: come possiamo sceglierlo, se lui se n’è andato? Egli se n’è andato, ma ha lasciato dei segni vivi della sua presenza, perché potessimo raggiungere lui, invisibile ma presente.
Che cosa sono i “segni”? Una carezza a una persona che amiamo è un segno, così anche un bacio, un abbraccio. Sono dei segni, segni dell’affetto, segni dell’amore. Così Gesù ha lasciato dei segni attraverso i quali noi possiamo risalire al suo affetto e riconoscerlo senza venirne abbagliati. Attraverso cui possiamo aderire a lui, liberamente. Da cui siamo sì attratti, ma restando liberi.
Il primo segno che ci ha lasciato è la Chiesa. Essa è il dono dello Spirito attraverso cui egli rimane in mezzo a noi, con cui si fa conoscere e amare, invisibile ma presente. E perciò potremmo dire che egli si dona a noi oggi ancora in modo visibile: visibile attraverso i segni.
I segni dei sacramenti, dei fratelli, della sua parola, dei poveri, di ogni uomo, delle parole che egli dice dentro di noi, dei desideri che suscita, delle attrattive, delle nostalgie, dei pentimenti, delle tristezze… tutti segni della sua invisibile ma reale presenza. Attraverso questi segni egli ci invita, ci sollecita. Egli è dunque in mezzo a noi ancor più efficacemente di prima, in un modo più profondo rispetto a quella che era la sua presenza in Palestina durante il suo ministero pubblico. Gesù ci parla dall’interiorità. Senza il dono dello Spirito, la sua presenza rimarrebbe per noi qualcosa di esteriore, di lontano. Come fu per gli apostoli, i quali dopo essere stati tanto tempo con lui, dopo aver ascoltato le sue parole, dopo averlo visto morto e risorto, ancora pensavano, pochi momenti prima dell’Ascensione: È questo il momento in cui finalmente ristabilirai il regno, in cui apparirai in tutta la tua potenza, la tua regalità? (cf. At 1,6). Poveri apostoli! Non avevano ancora ricevuto lo Spirito. Hanno dubitato fino all’ultimo, fino all’ultimo hanno tremato, fino all’ultimo si sono sentiti incapaci di leggere i segni. Soltanto lo Spirito ci rende capaci di questo.
È asceso al Cielo: questa è naturalmente un’immagine. Il Cielo non è un luogo geografico. Dio sta nella profondità di ognuno di noi, nella profondità dell’universo. Dio è l’origine di tutto. Dire che egli è asceso al cielo significa: è tornato là, dove è, e cioè all’origine di tutto, nella profondità di ogni cuore e di ogni creazione. È lì che lo dobbiamo cercare.
La festa dell’Ascensione ci rivela qualcosa di decisivo di Dio. Nella Trinità è entrata l’umanità: con Gesù, il verbo di Dio fatto carne sale al Padre. L’umanità nostra siede per sempre accanto a Dio. Siamo resi partecipi della natura divina (2Pt 1,4). Per questo Paolo può dire: Cercate le cose di lassù (Col 3,1), invitandoci a cercare le cose che non passano, quelle che danno la vera gioia.
La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3). Gesù asceso al Cielo ci dice che la nostra vita è cambiata: non siamo più quelli di prima e non siamo come tutti gli altri. Non per merito nostro, ma per grazia. Non per un merito, ma per un compito: andate in tutto il mondo (Mt 16,15; cf. 28,19).
La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3): meditiamo queste parole di Paolo e troveremo il senso non solo della festa dell’Ascensione, ma di tutta la nostra esistenza. Siamo chiamati a vivere quaggiù, ma con lo sguardo teso a ciò che non passa e anzi consapevoli che ciò che non passa ci è già stato dato. Sentiamo tutta la gratitudine immensa di questo dono e la responsabilità che viene a tutti noi per la nostra missione sulla terra. Sia lodato Gesù Cristo.
[testo non rivisto dall’autore]