Cattedrale di Reggio Emilia, venerdì 10 aprile 2020
Abbiamo assistito all’umiliazione e alla sconfitta di un uomo. Un uomo che certamente aveva sollevato tante aspettative durante la sua vita pubblica, a motivo della sua parola, dei suoi miracoli, dei suoi gesti. Un uomo che aveva convocato intorno a sé un gruppo di discepoli che rappresentavano un segno di speranza: la speranza di una novità. Ma anche gli stessi discepoli hanno smesso di considerarlo loro maestro, e lo hanno abbandonato.
Pietro gli aveva detto: darò la mia vita per te (Gv 13,37). E invece: tutti lo abbandonarono e fuggirono (Mc 14,50). Anche Pietro.
Questo è ciò che vediamo e percepiamo: morte e sconfitta.
Ma c’è un altro modo per leggere questi stessi eventi. Li possiamo comprendere alla luce delle parole che Gesù aveva pronunciato anticipando il senso della sua morte: il Cristo deve soffrire per entrare nella sua gloria (cf. Lc 9,22; 24,26). Li possiamo comprendere alla luce della sua Resurrezione.
E così scopriamo che egli ha accettato liberamente di andare incontro a questo terribile destino. Dice Gesù davanti ai discepoli che volevano combattere con la spada coloro che erano venuti per arrestarlo: Credete che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? (Mt 26,53). Nello stesso tempo il desiderio della nostra salvezza diventa per lui un obbligo.
Era dunque necessario che egli agisse così: il Figlio di Dio doveva conoscere le sofferenze e le conseguenze più atroci del peccato per essere solidale con ciascuno di noi, con i peggiori tra gli uomini. Il peccato è una realtà molto seria e drammatica. È frutto della libertà dell’uomo – e Dio si inchina davanti alla libertà della sua creatura, perché la ama. Dio si ferma davanti alla libertà: il suo amore non obbliga mai, è il contrario della costrizione. Il suo amore è libertà.
Eppure Dio poteva fare qualcosa di decisivo davanti al dramma del peccato: poteva entrare in esso, attraversarlo, caricarselo addosso, diventare una cosa sola con esso per distruggerlo con la sua morte. Ha scritto san Paolo: Cristo è diventato lui stesso maledizione per noi, a nostro favore (Gal 3,13). Con il sacrificio di se stesso Cristo ha annullato il peccato (Eb 9,26).
E dal di dentro di queste tenebre, Dio poteva far sbocciare di nuovo la vita, con la potenza della Resurrezione.
Scopriamo così che il mistero della croce non è sconfitta, ma gloria e speranza. È un mistero d’amore, la fonte della vita vera.
Tutto per noi si decide nel modo in cui guardiamo alla storia: alla vita di Gesù, alla storia del mondo, alla nostra vicenda personale. Guardiamo a tutto ciò da soli o con fede? Ci fermiamo alla superficialità degli eventi oppure scaviamo in essi? Desideriamo imparare dalle circostanze che ci sono date di vivere oppure le subiamo fatalisticamente?
Penso che queste riflessioni possano illuminare anche il momento presente, segnato dalla pandemia e da tante restrizioni. Certamente stiamo vivendo un periodo di difficoltà, segnato da numerosi lutti e sacrifici.
Eppure l’evento della croce di Cristo ci insegna che anche nel luogo più terribile – tale è appunto la croce di Gesù – Dio è presente. Ci insegna che dentro ogni circostanza, anche quella più difficile, l’opera di Dio non viene mai meno. Si tratta di avere occhi per scorgerla, di avere l’umiltà per chiedere al Signore di svelarci il senso di ciò che egli lascia accadere.
E così anche questo tempo potrà essere compreso come una grande prova, attraverso la quale Dio ci obbliga a contemplare il mistero doloroso e glorioso della croce di Gesù, affinché crescano la nostra fede e il nostro affidamento a lui.
Dolore e gloria, passione e resurrezione: nella vita del Dio fatto uomo questi misteri sono intrecciati fra loro. Così è anche nella nostra vita.
Sulla croce Gesù grida: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15,34) – Egli vive l’esperienza reale dell’abbandono, del dolore fisico. Vive l’angoscia della morte, proprio come noi.
Dalla croce Gesù prega: Padre, nelle tue mani affido il mio spirito (Lc 23,46). Dentro l’abbandono, egli invoca il Padre: non vuole vivere la morte da solo, ma in relazione con lui.
Il momento della morte di Gesù diventa così il dono supremo della sua vita: quando spira, Gesù consegna lo Spirito (Gv 19,30). Lo Spirito della vita entra stabilmente nel mondo.