Reggio Emilia, Cappella del Vescovado, 26 aprile 2020
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
Siamo ancora dentro la luce della Pasqua, che dobbiamo approfondire,affinché essa possa illuminare le nostre vite presenti e i momenti ancora difficili, e talvolta drammatici, che dobbiamo vivere.
Sono contento di celebrare per voi questa Santa Messa: per voi fedeli della mia Chiesa, per voi fedeli della Chiesa universale. Ogni Messa infatti è celebrata per tutta la Chiesa, anzi, per tutti gli uomini. Non posso dire purtroppoconvoi, e ogni volta che celebro davanti alla televisione spero sempre che sia l’ultima, che si possa riprendere presto a celebrare cumpopulo, con il popolo – naturalmente con tutte le attenzioni dovute al momento drammatico che stiamo vivendo.
Cerchiamo ora di approfondire il significato della Pasqua e della resurrezione alla luce delle letture che abbiamo ascoltato (At 2,14a.22-33; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35).
Innanzitutto le tre letture, prese nel loro insieme, ci hanno aiutato a comprendere chi è il cristiano: egli è il testimone della resurrezione, colui che l’ha vista, che ne ha visto e che ne vede nella sua vita i segni. Il cristiano non è semplicemente il testimone della croce: è il testimone della resurrezione. Senza la resurrezione, infatti, la croce sarebbe soltanto un segno di disfatta, di morte, di ludibrio, così come essa poteva essere avvertita dai pagani del tempo di Gesù e probabilmente anche, come abbiamo sentito dal Vangelo, da alcuni della primitiva comunità, prima di arrendersi all’evidenza dei segni. Nello stesso tempo la resurrezione senza la croce sarebbe un mito: soltanto la croce, l’obbedienza di Cristo al Padre, ha permesso la resurrezione. La resurrezione di Cristo è la risposta del Padre all’obbedienza del Figlio, è il sì del Padre al sì del Figlio.È il compimento di tutta una lunga strada che ha portato il Verbo di Dio a farsi uomo, a vivere con noi sulla terra, a partecipare di tutte le nostre esperienze, anche quelle più drammatiche e faticose; e infine a morire – l’esperienza più terribile –per poi risorgere. Egli è sempre accanto a noi pellegrini nel mondo, come ai discepoli di Emmaus.
Ebbene, quali sono i segni della resurrezione più evidenti per il cuore dell’uomo, allo sguardo della fede? Certo, si tratta sempre di evidenza morale, di più segni che vanno tenuti presenti l’uno con l’altro. Ne raccogliamo alcuni, proprio dalle letture di questa domenica.
Innanzitutto il segno della tomba vuota. Lo abbiamo visto: accorrono le donne, accorrono poi alcuni fra gli apostoli, in particolar modo Pietro e Giovanni, e trovano la tomba vuota. Il masso ribaltato e la tomba vuota: questo è un segno. Un segno dunque che Gesù poteva non essere più tra i morti. Certo, il corpo avrebbe potuto essere stato trafugato, i discepoli avrebbero potuto portarlo via proprio per far nascere la diceria del risorto – anche questa diceria è stata diffusa nei primi giorni dopo la resurrezione. È possibile questo? Certo, la trafugazione è possibile. Mafar nascere la diceria del risorto è molto più difficile. Accanto alla tomba vuota – nel racconto della resurrezione che fa l’evangelista Giovanni – troviamo anche il segno dei lini che avvolgevano il corpo di Gesù, che non sono srotolati, ma afflosciati, come se lui ne fosse “venuto fuori” in un modo nuovo, trapassandoli, senza aver bisogno di slegarli. E, nello stesso tempo, riposto a parte e ben piegato, il velo che copriva il suo volto.
Il segno della tomba vuota: questo segno è importante, potremmo dire necessario. Necessario, ma non sufficiente. Abbiamo un altro segno: il segno di Gesù stesso che torna tra i suoi nell’arco di quaranta giorni. Non si tratta di visioni: si tratta di una vera e propria presenza fisica di Gesù. Certo, è una fisicità nuova, in continuità e discontinuità con la fisicità di Gesù di Nazareth. In continuità sono soprattutto i segni dei chiodi e delle ferite, il fatto che egli mangia con loro, siede con loro, parla con loro. In discontinuità è il fatto che egli entra dalle porte chiuse, appare quando e come vuole, si fa riconoscere quando vuole. Ma certamente, le apparizioni del risorto di cui parlano i racconti del Nuovo Testamento, vanno ad arricchire e a corroborare la testimonianza della tomba vuota. Non c’è soltanto la tomba vuota: c’è soprattutto il corpo risorto, che non è un corpo morto “rianimato”,ma è un corpo nuovo.Come dice Paolo:da corruttibile, incorruttibile; da mortale, immortale.Si semina qualcosa, e germina qualcosa di nuovo (cf. 1Cor 15,42-44).
Però, nella testimonianza delle Scritture che ci offre la liturgia di oggi, abbiamo un terzo importante segno:quello delle profezie. Nessuna profezia di per sé può essere necessariamente compresa come capace di portare alla conclusione della morte-resurrezione di Gesù.Ma con lo sguardo alla tomba vuota e alle apparizioni del risorto possiamo, come fa Gesù stesso, rileggere tutta la Scrittura, a partire da Mosè e dai profeti, e poi i Salmi, per trovare la prefigurazione della morte e della resurrezione. Ne abbiamo un esempio negli Atti degli Apostoli, quando Pietro rilegge per ben due volte il Salmo 15, che abbiamo pregato in questa liturgia come salmo responsoriale. E abbiamo l’esempio storico e concreto di Gesù che a Cleopa e all’amico, lungo la strada verso Emmaus, rilegge tutte quante le anticipazioni che nella Scrittura portavano lì, a quel punto, alla tomba vuota, alle sue apparizioni, all’evento della morte e resurrezione.
Questa triplicità di segni convergenti ci porta dunque a una certezza morale di cui noi siamo chiamati ad essere testimoni e annunciatori, con la nostra vita e con le nostre parole.
Stolti e tardi a capire, dice Gesù,non sapevate, come vi avevo detto, che il Figlio dell’uomo deve morire per poi risorgere? (cf. Lc 24,25).
Cosa significa questo “deve”? Mi sono trovato più volte a spiegarlo: è importante comprenderlo nella sua verità. “Deve” non significa certamente “sollecitato da una forza esteriore”. Gesù, soprattutto nel vangelo di Giovanni, dice chiaramenteoffro la mia vita liberamente per poi riprenderla (cf. Gv 10,18). Questo “deve”, dunque, è una cogenza interiore.Precisamente è la forza della carità.Il Figlio dell’uomo deve morire per poi risorgere(cf. Lc 24,46) significa che il Figlio dell’uomo non può non amare fino alla fine (cf. Gv 13,1), non può non donare tutto se stesso, perché questo è nella logica stessa del suo essere. Fin da prima del tempo, egli dice tutto se stesso al Padre, è Parola rivolta al Padre e tutto se stesso, tutto il suo essere è ricevuto dal Padre. Questa donazione interiore e profonda è dunque l’anima stessa di Dio ed è il significato radicale di questa “necessità intrinseca”.
Impariamo anche noi, immergendoci nell’evento della morte e resurrezione di Gesù, questa profonda necessità interiore della donazione. Chiediamola come dono di grazia al Signore risorto.Sia lodato Gesù Cristo.